Onorevoli Colleghi! - Nel corso della XIV legislatura il Ministro della giustizia, senatore Roberto Castelli, ha istituito una Commissione ministeriale, presieduta dal dottor Carlo Nordio, per la modifica del codice penale.
      La presente proposta di legge è diretta a tradurre in un atto di iniziativa legislativa la proposta elaborata dalla Commissione, per quanto riguarda la parte generale del codice penale.
      Si riporta, di seguito, la relazione della Commissione ministeriale che illustra l'impianto della predetta parte generale:
      «La Commissione ha largamente condiviso il proposito di una completa attuazione dei princìpi di legalità, tassatività e colpevolezza già manifestato nelle relazioni Pagliaro, Riz e Grosso. Ha altresì condiviso la loro analisi sulla patologia di un sistema degenerato nell'incertezza e nell'inefficienza, individuandone le cause negli estesi spazi di discrezionalità dovuti alla disciplina della commisurazione della sanzione, delle circostanze e del concorso di reati. Ha anche concordato sulla necessità di eliminare, o ridurre al minimo, lo stridente contrasto tra la severità delle pene comminate e l'esiguità di quelle inflitte, e l'ulteriore discrasia tra queste ultime e quelle applicate in sede di esecuzione. Infine, ha inteso rimediare alla frantumazione del sistema determinata dai

 

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meccanismi premiali processuali e penitenziari.
      Nei limiti delle competenze attualmente assegnatele, dalle quali peraltro esulano quelle processuali e gran parte di quelle penitenziarie, si è operato nel solco tracciato dai precedenti progetti con maggiore incisività.
      L'obiettivo della certezza del diritto è stato perseguito in due direzioni.
      Una prima sostanziale, attraverso un'opera di radicale depenalizzazione, con la ricostruzione della parte speciale, e l'eliminazione delle contravvenzioni. Quest'ultima scelta innovativa è stata adottata a grande maggioranza sin dall'inizio dei lavori, dopo un dibattito dove sono emerse poche sebbene autorevoli voci di dissenso. La decisione finale poggia sul principio della residualità del diritto penale, oggi indicato da molti autori come principio di "necessità" o "frammentarietà"; per il suo significato, la sua struttura e la sua funzione, il diritto penale è infatti incompatibile con le fattispecie rappresentative di comportamenti assiologicamente neutri, o comunque di scarsa valenza antisociale. Ma poggia altresì sulla considerazione empirica, e nondimeno altrettanto valida, che l'attuale catalogo dei reati contravvenzionali non ubbidisce a ragionevoli criteri di differenziazione rispetto a quelli delittuosi, ma riflette un vago inserimento casuale. A fronte di delitti puniti con la sola multa campeggiano contravvenzioni sanzionate con l'arresto; la stessa discrasia tra l'articolo 2621, perseguibile d'ufficio e l'articolo 2622 del codice penale, perseguibile (nella sua prima parte) a querela, rivela una visione contraddittoria che impone una riduzione ad armonia ed equità. Se a ciò si aggiunge l'assoluta ineffettività della sanzione, neutralizzata dall'inevitabile prescrizione, l'eliminazione dei reati bagattellari è conseguenza coerente e doverosa.
      In ossequio a questi criteri, si è proceduto - e si sta procedendo - alla ricognizione delle fattispecie contenute non solo nel codice, ma nello sterminato ambito delle leggi speciali. Nell'intento di evitare un indifferenziato entusiasmo pantoclastico, abrogativo anche di reati importanti, la Commissione si è proposta - e si propone - di individuare analiticamente le ipotesi da convertire in illeciti amministrativi e quelle da elevare al rango di delitti, mirando ad una più coerente riduzione della sanzione penale alle sole violazioni rilevanti in chiave di pericolosità, sia pure in uno stadio anticipato, perseguendo quel cosiddetto diritto penale minimo volto ad assicurare efficacia al principio di legalità a maggior garanzia contro l'arbitrio e l'errore.
      La seconda direzione è formale, e mira ad una tecnica di redazione che renda i concetti chiari e distinti. Chiarezza che si è inteso elevare a precetto, se non vincolante nella gerarchia delle fonti, quantomeno indicativo, nella sua collocazione sistematica, di un indirizzo cogente, nella consapevolezza che, come è stato autorevolmente sostenuto, il dissesto del linguaggio della legge e "la mole magmatica e oscura del diritto penale complementare hanno una loro perversa razionalità", servendo come "formidabile strumento di dominio capace di tenere in ostaggio una collettività in perenne dubbio sulla liceità dei propri comportamenti quotidiani".
      In tale ottica di chiarificazione si inserisce anche la ridefinizione delle cause di non punibilità, che nel codice del '30 costituiscono almeno letteralmente, per la formula usata dal legislatore, una categoria indistinta, da precisare nei suoi contenuti e per gli effetti che ne derivano. La rigorosa adozione di un criterio nominalistico consente di distinguere in modo inequivoco la tipologia delle cause che escludono l'applicazione della pena, lasciando alla formula "cause di non punibilità" un campo senz'altro residuale.
      Un'altrettanto efficace opera di semplificazione è stata anche proposta in merito alla sorte del decreto-legge non convertito. Un forte segnale di novità sarebbe stato rappresentato dalla mancata previsione della sua disciplina, intesa come consapevole rifiuto ad accogliere questa fonte di produzione nell'ambito della normativa penale. Dopo un articolato dibattito, si è preferita una soluzione più aderente alla
 

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forma del dettato costituzionale, che non sembra escludere la legittimità dell'intervento del potere esecutivo con provvedimento ad effetto immediato, in un settore in cui è peraltro rigorosa la riserva di legge. La Commissione, pur adeguandosi alla necessità di enunciare una disciplina dei fatti commessi vigente il decreto, ritiene comunque doveroso manifestare la difficoltà di una sua razionale applicazione secondo i princìpi della successione delle leggi penali.
      L'obiettivo dell'attuazione dei princìpi di legalità e tassatività è stato perseguito con un più incisivo intervento nei seguenti settori:

          il nesso di condizionalità essenziale riferito alla condotta ove azione ed omissione vengono parificate, con una conseguente omogeneità applicativa che escluda variazioni fondate su arbitarie opzioni statistiche;

          la riserva di un'espressa disposizione di legge per l'obbligo di impedire l'evento;

          la definizione delle posizioni di garanzia, di quelle di mera sorveglianza e intervento, e la loro netta separazione concettuale e normativa;

          la ridefinizione della responsabilità penale nelle organizzazioni complesse limitatamente all'esercizio specifico e attuale della funzione, nell'ambito di confini rigorosi;

          la più accurata tipizzazione delle condotte di partecipazione nel concorso di persone nel reato, indicandone specificamente la struttura anche in funzione della loro efficienza causale, con la soppressione della generica categoria dell'istigazione (riservata, in modo più analitico, a singole ipotesi della parte speciale) e con la più rigorosa formulazione degli atti di agevolazione;

          la nuova disciplina delle circostanze.

      L'obiettivo della effettività della pena e della sua riconduzione nell'ambito degli scopi che le sono possibili e appaiono utili, è stato perseguito attraverso un'attuazione più incisiva dei noti princìpi dell'opzione garantistica: la retributività (nulla poena sine crimine); la legalità (nullum crimen sine lege); la necessità (nulla lex poenalis sine necessitate); la lesività (nulla necessitas sine iniuria); la materialità dell'azione (nulla iniuria sine actione); la colpevolezza (nulla actio sine culpa).
      Il sistema è stato rimodellato secondo la struttura logica e teleologica della sanzione penale quale emerge dal lessico normativo: una logica di proporzione, perché, malgrado ogni tentativo di forzatura ermeneutica, il concetto di pena contiene etimologicamente e ontologicamente quello di espiazione, e una teleologia di rieducazione, espressamente indicata dal canone costituzionale.
      Ne è derivato un assetto che coniuga la rigidità della pena comminata con la flessibilità di quella applicata in concreto, eliminando, o almeno attenuando, il contrasto tra l'avvertita esigenza della sua certezza, associata alla diffusa esaltazione del carcere nella sua dimensione meramente afflittiva, e il contestuale, altrettanto diffuso, esasperato indulgenzialismo premiale. La composizione è stata perseguita attraverso una semplificazione dei criteri di previsione sanzionatoria, fondata sulla sostanziale eliminazione della pena pecuniaria, e sulla reclusione come "unità di misura" della pena, ampiamente temperata da un ampio spettro di opzioni di conversione, a loro volta affiancate da rigorosi sistemi di controllo e di tassative conseguenze ripristinatorie in caso di inottemperanza.
      Fondamentale, in tale ottica pedagogica e riconciliativa non secondaria nel telos polifunzionale della pena, è la facoltà del giudice di convertire la pena della reclusione sin dal momento della pronunzia della condanna, secondo i criteri di ragguaglio tassativamente indicati. In essa si inseriscono altresì la disciplina della confisca, strutturata come pena ablativa, finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi, o alla costituzione di un fondo per le vittime dei reati; la possibilità conferita al giudice di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena - peraltro

 

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preclusa per la confisca e per le pene convertite, interdittive, prescrittive e ablative - al risarcimento o all'eliminazione delle conseguenze dannose, con la revoca de jure in caso di inadempimento; infine la previsione, in casi ben definiti, del perdono giudiziale per gli adulti.
      L'obiettivo dell'attuazione del principio di colpevolezza, fondamento inderogabile della responsabilità penale alla luce del canone costituzionale e della nota sentenza n. 364 del 1984, è stato perseguito seguendo varie direttive:

          l'esclusione di ogni forma di responsabilità oggettiva, in ossequio alla piena applicazione del principio costituzionale della personalità della responsabilità penale;

          la ridefinizione del dolo, con la rigorosa limitazione del dolo eventuale alla rappresentazione della realizzazione dell'evento come altamente probabile, e con demarcazione significativa dell'area della colpa, caratterizzata peraltro dalla concreta prevedibilità dell'evento offensivo;

          l'abrogazione della categoria generale della preterintenzione;

          l'esclusione di reati aggravati dall'evento;

          la disciplina dell'errore sul precetto, con l'affermazione di responsabilità limitatamente a quello determinato da colpa, e salvo il principio, affermato dalla Corte costituzionale, della evitabilità;

          la disciplina dell'errore sul fatto, sulle scriminanti, sugli elementi di qualificazione e sugli elementi differenziali;

          la disciplina dell'aberratio ictus estesa alla figura dell'errore sulla persona dell'offeso e all'operatività delle scriminanti applicabili ove il fatto avesse offeso la persona contro la quale era diretto, valorizzando l'effettivo significato della condotta programmata;

          la ridefinizione, già menzionata, delle condotte di partecipazione, che dal piano oggettivo della tipicità transita a quello soggettivo della colpevolezza tanto nell'individuazione della responsabilità (ricondotta ai princìpi generali) quanto nella commisurazione della pena, e con il conseguente ripudio della responsabilità anomala dell'attuale articolo 116.

Le norme penali.

      La nuova parte generale si apre con una ormai salda cornice di princìpi garantistici, che condizionano e limitano il ricorso alla tutela penale e la sua applicazione concreta. Riaffermazione che ne è al contempo anche aggiornamento, per un verso dovuto all'esigenza di adeguarne le formule al nuovo sistema progettato, specie con riferimento al versante sanzionatorio, per altro verso volto a sviluppare la logica di garanzia, storicamente alla base dei princìpi penalistici, alla luce del più recente quadro costituzionale ed internazionale.
      Si è in particolare tenuto conto della necessità di definire i rapporti con i sistemi penali stranieri in termini più consoni al volto attuale del fenomeno criminale, non più confinato nello spazio giuridico segnato dai confini nazionali. Sono stati inoltre regolati alcuni risvolti sostanziali del ne bis in idem in relazione tanto al riconoscimento delle sentenze penali straniere e delle conseguenti sanzioni, quanto al concorso apparente di norme penali. Si è dato infine adeguato riconoscimento ad alcune esigenze di fondo di un sistema penale moderno, come la certezza delle relative previsioni, l'offensività del reato, il contrasto al pericolo di decodificazione.
      Il principio di legalità ha in primo luogo trovato una espressione avanzata tanto in relazione alla descrizione dei fatti, quanto alla previsione delle corrispondenti sanzioni. Nella prima direzione, la tradizionale e formale riserva di legge, già nel codice del 1930 intesa in termini di tassativa descrizione dei fatti tramite il riferimento all'"espressamente", è stata completata con un requisito ulteriore: la determinatezza nella formulazione normativa, in modo da contrastare il pericolo di

 

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un linguaggio normativo oscuro, che ostacola la comprensione da parte dei cittadini e frustra la capacità di orientarne i comportamenti.
      Rispetto alle sanzioni si richiede che i relativi livelli minimi e massimi siano fissati secondo livelli di adeguatezza al reato di volta in volta previsto. L'innovazione rappresenta uno sviluppo di quel principio di proporzione, che si è via via delineato nella giurisprudenza sulla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e affermato solennemente nella Carta europea dei diritti fondamentali.
      Nella stessa norma iniziale, poi, l'espresso riferimento all'ergastolo ed alla reclusione è reso necessario dal nuovo sistema sanzionatorio adottato, in cui i reati vengono limitati ai soli fatti per i quali la legge prevede una delle due pene indicate, in modo da esprimere con chiarezza la rispettiva, diversa gravità. Al contempo, il rilievo innovativo del meccanismo di conversione della detenzione in altre tipologie di pena ha indotto a collocare ad apertura della parte generale il requisito dell'espressa previsione legale dei relativi casi e criteri di operatività.
      Anche rispetto al tempo, si è mantenuto il nucleo di radicate acquisizioni in tema tanto di irretroattività della norma penale incriminatrice, quanto di prevalenza del favor rei o libertatis in caso di sua abrogazione, illegittimità costituzionale o vicende modificatrici. Il peso specifico del principio in questione nella successione temporale delle norme penali ha indotto ad estendere la possibilità di superare la stessa forza del giudicato al di là della tradizionale abrogazione di norma incriminatrice e della sua - ora espressamente parificata - illegittimità costituzionale. Una fondamentale esigenza di pari trattamento delle situazioni in concreto analoghe impone infatti che tutte le pene in corso di esecuzione non superino il massimo del nuovo regime sanzionatorio introdotto per lo stesso fatto. Si tratta di un limite innovativo rispetto al codice vigente, ma già fondamentalmente anticipato nel progetto Pagliaro, non escluso nella relazione al progetto preliminare della Commissione Grosso ed infine espressamente accolto nel testo riveduto della stessa. La Commissione, a maggioranza, non ha però ritenuto di estendere lo stesso regime anche ai casi di passaggio da reato ad illecito amministrativo-penale, per i quali non è stato inserito un regime generale.
      Pure a maggioranza si è eliminato il riferimento nel codice penale ad una specifica disciplina di successione per le leggi penali temporanee ed eccezionali, ritenendo che per esse valga il regime di cui alle disposizioni sulla legge in generale.
      Un ampio dibattito interno alla Commissione ha inoltre riguardato il problema del decreto-legge non convertito o convertito con emendamenti, per il quale si è preferito comunque seguire l'orientamento garantista delle precedenti Commissioni e dettare una disciplina che tuteli il cittadino contro i rischi di un trattamento penale per lui più sfavorevole, in conseguenza del venir meno del quadro normativo vigente al momento del fatto o comunque di modifiche peggiorative relative alle norme emendate.
      Il tempus commissi delicti è stato riferito al momento in cui è stata tenuta la condotta costitutiva, ritenendosi a maggioranza che nei reati di durata esso coincide con il momento in cui l'azione o l'omissione hanno trovato compimento. La Commissione, pure a maggioranza, ha poi ritenuto di non accogliere la proposta, già avanzata nel progetto Pagliaro, in base alla quale l'introduzione di un regime più severo può applicarsi a tali reati solo dopo un periodo minimo di necessaria vacatio legis.
      Infine, il regime in tema di applicazione nel tempo delle norme penali è stato esteso anche a tutte le altre norme giuridiche richiamate dalle prime: l'impossibilità di rintracciare un criterio distintivo sicuro fra le disposizioni integratrici delle norme penali e quelle che tali non siano ha consigliato di eccettuare dal regime previsto solo le norme di fonte sociale pure richiamate da norme penali.
      Quanto all'applicazione nello spazio delle norme penali, si è superata la duplicazione
 

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fra l'obbligatorietà della legge penale e l'affermazione del principio di territorialità, già presente nel codice vigente (articoli 3 e 6). Il riferimento fondamentale è all'applicazione della legge penale italiana ai reati commessi anche solo in parte nel territorio dello Stato. Inoltre - sia pur in una logica ben diversa da quella collegata all'ideologia nazionalistica che aveva ispirato in materia il codice del 1930 e piuttosto nel solco dei più recenti progetti di riforma del codice penale - si è disposta l'applicabilità della legge penale anche a una serie relativamente ampia di reati commessi all'estero, fatte salve sempre le eccezioni disposte dal diritto pubblico interno, europeo o internazionale. Per mediare le esigenze di tutela con quelle di non ampliare eccessivamente il carico del sistema penale italiano, le estensioni rispetto al criterio di territorialità sono distinte secondo tre livelli di requisiti: elencazione tassativa dei reati considerati, o ancora aggiunta della condizione che il reo si trovi sul territorio dello Stato, o infine iniziativa del Ministro della giustizia o della parte offesa.
      Il primo gruppo di reati punibili secondo la legge italiana anche se commessi all'estero comprende fatti che offendono alcuni diritti fondamentali del genere umano, o interessi primari, anche essi tassativamente elencati, dello Stato o dei suoi funzionari pubblici, come anche i relativi segni distintivi e monete. Importante è l'equiparazione a questi interessi statuali di quelli corrispondenti dell'Unione europea: una assimilazione già prevista in generale dal progetto Pagliaro sia pure in relazione alle Comunità europee, riferimento che dopo il Trattato di Maastricht è assorbito da quello all'Unione europea (nel progetto l'indicazione di quest'ultima è dunque sempre da intendere come comprensiva di quella alle Comunità europee). Sempre nello stesso gruppo di estensioni delle norme penali italiane sono previste specifiche offese commesse al di fuori dei confini nazionali, ma relative tanto ad alcuni primari diritti fondamentali della persona umana, quando il fatto sia commesso a danno di cittadino italiano, quanto ad alcune offese concernenti titoli negoziati sui mercati finanziari italiani.
      Un secondo gruppo di reati punibili secondo la legge italiana anche se commessi all'estero, concerne fatti collegati a fenomeni criminali tipicamente transnazionali (traffico di stupefacenti, reclutamento ed impiego di mercenari, tratta di esseri umani, anche a fini pedopornografici): nonostante la rilevanza penale di tali condotte criminose anche sul piano del diritto internazionale convenzionale, la condizione che il soggetto attivo si trovi sul territorio dello Stato rappresenta un punto di equilibrio con l'esigenza di assicurare una praticabilità della minaccia di pena operata dal nostro ordinamento.
      Infine, un terzo gruppo di reati commessi all'estero riguarda tutti quelli commessi in danno di cittadini italiani: qui la punibilità secondo la legge italiana dipende dalle valutazioni di opportunità del Ministro della giustizia o della parte offesa.
      A temperamento delle suddette estensioni, opera la disciplina dei rapporti con l'applicazione di norme penali straniere, che in alcuni casi limita quella corrispondente delle norme italiane. In primo luogo, si è concretizzato l'impegno assunto dagli Stati membri dell'Unione europea sin dal Consiglio straordinario di Tampere sulla giustizia: porre a base della cooperazione in materia penale il reciproco riconoscimento delle sentenze. Si fonda così un diritto al ne bis in idem per le sentenze di condanna in altro Stato dell'Unione europea quando le relative pene siano già state eseguite. Ampliando la stessa logica a livello internazionale comune, si accetta inoltre il cosiddetto principio di deduzione, in base al quale le pene già scontate all'estero per reati ivi commessi sono dedotte in caso di condanna in Italia per gli stessi fatti.
      D'altra parte, si è ritenuto di mantenere la possibilità per il giudice italiano di riconoscere la sentenza penale straniera per farne derivare l'applicabilità di alcuni effetti penali tassativamente elencati. Si è pure riaffermato il tradizionale principio
 

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di garanzia della doppia incriminazione in materia di estradizione, ma al contempo si è preso atto che, alla luce degli sviluppi più recenti della cooperazione internazionale in materia penale, norme di diritto dell'Unione europea o internazionale consentono di superarlo rispetto a determinate categorie di reati.
      In linea con una impostazione già adottata dalla Commissione Grosso, gli ulteriori profili di diritto penale internazionale collegati all'estradizione, al riconoscimento di sentenze penali straniere ed al rinnovamento del giudizio sono lasciati ad un intervento extra-codicem, ma pur sempre organico, che tenga conto del quadro costituzionale, degli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, dell'opportuno raccordo con la normativa processuale in materia.
      Dopo la definizione delle sfere temporali e spaziali di applicazione delle leggi penali sono espressi due fondamentali princìpi che conformano il rapporto tra il sistema penale ed i soggetti dell'ordinamento. Quanto alla tassatività, essa è stata qui espressa non più solo con riferimento alle norme che incriminano un fatto, ma anche a quelle che lo escludono. Una estensione voluta dalla maggioranza della Commissione e non connessa a particolari schemi dogmatici, quanto discendente dalla considerazione che l'aggiornamento operato nel progetto al catalogo delle circostanze che escludono il fatto come reato consente di chiudere il varco di possibili disparità nell'applicazione giurisprudenziale in materia.
      Anche in relazione all'offensività, si è ritenuto di accogliere un principio ormai largamente penetrato, sia pur con varietà di accenti, nella dottrina italiana, riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e affermato, ancorché con formule differenziate, dai precedenti progetti Pagliaro e Grosso. In particolare, il progetto esplicita che l'applicabilità della norma penale è limitata ai casi in cui si è verificato un danno o un pericolo per l'interesse da essa specificamente protetto. Requisiti che peraltro sono inevitabilmente filtrati dalla formulazione legislativa della norma incriminatrice, il che basta ad escludere che il principio così affermato impedisca il ricorso alla tecnica del pericolo astratto. Ciò almeno ogni volta che le caratteristiche del bene in questione o le stesse modalità dell'offesa non consentono l'introduzione di un evento concretamente pericoloso, ma la previsione di tipici caratteri di pericolosità della condotta illecita, fondati sulla migliore scienza ed esperienza.
      A chiarimento del percorso seguito dalla Commissione in relazione ai princìpi in esame, va segnalato che la maggioranza ha rifiutato tanto la proposta di ricomprenderli sotto una comune rubrica sull'interpretazione delle norme penali, quanto quella di affiancarli in un tale contesto al divieto di adottare l'interpretazione più sfavorevole al reo nei casi in cui sussista ragionevole dubbio sul significato di una norma penale.
      In relazione al concorso apparente di norme penali, si è riconosciuta la necessità di indicare un criterio ulteriore rispetto alla specialità, unico riferimento espresso nell'articolo 15 del codice Rocco. Da solo, questo è infatti inadeguato ad evitare un eccessivo cumulo di reati di fronte alle molteplici possibilità combinatorie fra norme penali che nei moderni ordinamenti complessi permangono anche dopo l'opera di razionalizzazione dovuta ad una nuova codificazione. Per contrastare un tale rischio, la Commissione ha concordato sul fondamento del criterio ulteriore rispetto alla specialità, riconosciuto - in linea con quanto previsto già nei progetti Pagliaro e Grosso - nel principio del cosiddetto ne bis in idem sostanziale. La discussione è stata invece molto articolata in merito alla formulazione positiva che esso doveva assumere e sui rapporti da instaurare fra i due criteri accolti.
      In proposito, la maggioranza ha accolto una soluzione che indica solo il risultato finale da tutti condiviso: l'inapplicabilità di una pluralità di pene per un medesimo fatto. Si tratta di una regola di chiusura del sistema ("in ogni caso nessuno può essere punito più di una volta per un medesimo fatto"), la quale è preceduta da una disciplina ad hoc per il reato complesso.
 

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Per questo, si dispone che la relativa norma incriminatrice è in grado di assorbire le qualificazioni dei singoli fatti che altrimenti costituirebbero distinti reati, pur lasciando aperta la possibilità di eccezioni espresse.
      Non ha invece incontrato il favore della maggioranza della Commissione una formula proposta al posto delle due suddette regole e rivolta a fissare in termini innovativi e più precisi le modalità operative del criterio in questione ed i suoi rapporti con il canone logico della specialità ("Al di fuori dei casi di specialità, non si applicano le norme penali che prevedono una condotta il cui significato offensivo è parte costitutiva essenziale di quello descritto da altra norma che preveda una pena più grave").
      La Commissione ha lavorato sin dall'inizio con l'intento di razionalizzare i rapporti fra codice penale e legislazione penale complementare, obiettivo comune del resto ai precedenti progetti Pagliaro e Grosso. In specie, l'indicazione, contenuta nel suo stesso decreto costitutivo, a provvedere ad un "complessivo coordinamento" e ad una "semplificazione della normativa penale" è stata accolta non solo in relazione alla parte speciale del codice, ma anche assicurando in generale la preminenza del codice nel complessivo sistema penale. Da qui in primo luogo il mantenimento della regola già contenuta nell'articolo 16 del codice vigente - e riproposta integralmente dai progetti Pagliaro e Grosso - in relazione alla normale riferibilità delle disposizioni contenute nella parte generale del codice anche alle materie regolate da leggi penali speciali, salvo deroga espressa.
      Si è inoltre condivisa in generale l'opzione favorevole a restituire al codice una generale funzione di orientamento sui valori meritevoli di tutela penale. In tal senso, si è operato nei singoli capitoli di parte speciale per aggiornare i rispettivi contenuti e confini di tutela. La consapevolezza però dell'ampiezza raggiunta dalla legislazione complementare vigente ha consigliato di inserire anche in parte generale una clausola per realizzare l'obiettivo congiunto del "coordinamento" e della "semplificazione" del sistema complessivo: a tale fine, si è previsto - secondo quanto anticipato nel progetto Pagliaro - una deroga ai normali criteri della successione di legge, ammettendo che le leggi penali preesistenti al nuovo codice penale restino in vigore solo in quanto espressamente riconosciute come vigenti da apposite leggi da emanare prima dell'entrata in vigore del nuovo codice.
      Infine, la Commissione ha condiviso l'esigenza espressa dalla cosiddetta riserva di codice, che intende contrastare il pericolo della decodificazione dopo l'emanazione del nuovo codice penale attraverso un vincolo all'ammissibilità di nuove leggi penali, da limitare solo alle modifiche al codice penale o comunque a leggi che regolino organicamente la materia di riferimento. La maggioranza ha tuttavia ritenuto che la sede codicistica non fosse idonea a disporre un tale principio. Esso piuttosto dovrebbe trovare collocazione adeguata in una fonte sovraordinata, come quella costituzionale, secondo quanto correttamente indicato dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali della passata legislatura. Invece, l'affermazione della riserva di codice nel testo di una fonte comunque ordinaria non può che assumere un mero valore di principio: una consapevolezza già espressa nel progetto Grosso, che ha indotto però ad affidare solo alla presente relazione il favore in proposito espresso dall'attuale Commissione.
      Il primo capitolo si chiude con la determinazione dei criteri per calcolare i termini previsti da una legge penale e con una norma a carattere definitorio, la quale riunisce tutte le disposizioni che fissano il significato di nozioni che ricorrono in più norme penali. La scelta di collocare in tale sede tutte le definizioni contenute nel codice, oltre che in linea con alcuni codici penali europei, è espressamente sostenuta dalle indicazioni contenute nella guida alla redazione dei testi normativi di cui alla circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri del 2 maggio 2001 (paragrafo 4.3). Nella formulazione attuale la norma contiene
 

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solo le definizioni formulate nelle parti del progetto già elaborate dalla Commissione, ma la struttura della norma, a carattere meramente elencativo, è suscettibile di ulteriori integrazioni via via che il disegno complessivo del codice si va definendo.

Reato: elemento oggettivo e soggettivo; scriminanti; scusanti; tentativo; concorso di persone.

      Nel rispetto della legalità rimane fermo il criterio formale di definizione del reato mediante le pene per esso previste secondo la scelta già fatta dal codice vigente.
      L'articolo [11], comma 1, indica il significato della particolare condizione personale che caratterizza il cosiddetto reato proprio, risolvendo problemi di notevole importanza come quello delle cosiddette qualifiche soggettive di mero fatto e dei presupposti di operatività del trasferimento di funzioni.
      L'articolo [11], comma 2, chiarisce che nel reato monosoggettivo l'evento può essere posto a carico dell'agente solo se la sua condotta ne sia stata la condicio sine qua non (nesso di condizionalità essenziale), escludendo la fondatezza di quegli indirizzi, soprattutto giurisprudenziali, che, spesso senza particolare consapevolezza, mostrano di concepire il rapporto di causalità come se potesse essere stabilito sulla base di criteri alternativi meno rigorosi (si pensi al criterio della mera "idoneità dell'atto" implicito nel ricorso all'idea di una probabilità statistica del verificarsi dell'evento, genericamente intesa, anche di entità ridotta, che non tiene conto dell'esigenza che la verifica della causalità secondo il tasso delle probabilità corrisponda ad un accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio). Il nesso di causalità tra l'evento e l'azione od omissione è comunque escluso dal concorso di "un fattore eccezionale". Si tratta, come noto, di un criterio correttivo ormai acquisito in giurisprudenza (e in linea con i progetti Pagliaro e Grosso), che riduce l'ambito della causalità giuridicamente rilevante.
      Novità molto significative rispetto al codice vigente riguardano la parificabilità dell'omissione all'azione. L'articolo [11], comma 4, così come stabiliva il progetto Grosso (articolo 16, comma 1), prevede la riserva di una espressa disposizione di legge per "l'obbligo di impedire l'evento" che rappresenta il presupposto indefettibile dell'imputazione dell'evento a titolo di omissione, sulla base del nesso causale tra il primo e la seconda.
      Deve trattarsi di "espressa disposizione di legge", dunque di una previsione legale in linea con tutti i contenuti della "stretta legalità", che non esclude, secondo i princìpi, una ulteriore ma contenuta specificazione (nei limiti indicati dalla legge) attraverso "regolamenti, provvedimenti giurisdizionali, ordini, contratti o altre discipline".
      La parificazione dell'omissione all'azione presuppone l'ascrizione al soggetto di un vero obbligo di "impedimento", al quale non può equivalere un generico obbligo di intervento o sorveglianza (articolo [11], comma 5), che, nello spirito della legge, non renda il soggetto l'effettivo "garante" della salvaguardia del bene presidiato dalla specifica norma incriminatrice. Per questa ragione l'articolo [11], comma 5, dispone che "non risponde per omesso impedimento chi è privo dei relativi poteri giuridici". L'articolo [11], comma 6, secondo quanto previsto dal progetto Pagliaro (articolo 11, commi 2 e 3), demarca poi nettamente le "posizioni di garanzia" dalle "posizioni di mera sorveglianza e intervento"; solo per le prime richiamando la disciplina generale delle responsabilità connesse all'"obbligo giuridico di impedimento", per le seconde richiedendo una speciale disposizione di legge che preveda l'incriminazione per l'inosservanza dei relativi obblighi.
      Per assicurare formalmente la riconoscibilità dell'"obbligo parificante" il progetto adotta il criterio nominalistico, definendolo quale "obbligo giuridico di impedimento", in ossequio alla formula del codice del '30 (definizione legale dell'obbligo parificante).

 

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      Il nesso di causalità è escluso nel reato omissivo se l'evento si sarebbe egualmente verificato anche in caso di osservanza dell'obbligo di impedimento (articolo [11], comma [7]).
      L'articolo [12] disciplina la materia della responsabilità penale nelle organizzazioni complesse stabilendo il principio della connessione della stessa alla funzione avente rilievo penalistico, vista nella sua "specificità" e "attualità" di esercizio (comma 1). La disposizione vuole dunque escludere che l'esponente dell'organizzazione risponda in ragione di mansioni a lui solo genericamente riferibili, perché in qualche modo (apparentemente) implicate dalla sua qualifica personale, ma non a lui specificatamente ascritte in ragione del particolare organigramma dell'ente. La disposizione esclude altresì che l'obbligo rilevante possa "espandersi" oltre i propri rigorosi confini segnati dagli "specifici soggetti" e "specifici interessi" verso i quali sia stato assunto. La disposizione mira, anche sotto questo profilo, a emarginare gli indirizzi giurisprudenziali che accertano le responsabilità per omissione senza tener conto dei limiti effettivi e originari dell'obbligo di azione; in particolare deducendo dall'obbligo medesimo e dalla sua violazione una generale responsabilità qualunque sia la sua ricaduta, anche a danno di soggetti e interessi diversi rispetto ai quali l'obbligo era stato assunto [comma 2].
      Il comma [3] disciplina il "trasferimento di funzioni" stabilendone i presupposti della "effettività" e della "liceità". Il primo presupposto esclude l'efficacia di ogni trasferimento puramente simulato per "riversare" le proprie responsabilità su altri o comunque per liberarsene artificiosamente. I riscontri pratici che supportano l'effettività del trasferimento o al contrario la rifiutano sono ormai oggetto di mature e articolate indicazioni della dottrina e della giurisprudenza, apparendo perciò esaustiva l'indicazione del progetto sul punto. Il presupposto della "liceità" del trasferimento indica, tra l'altro, che l'efficacia dello stesso postula la "trasferibilità" della funzione nei limiti fissati dal sistema giuridico settoriale. Il trasferimento deve risultare anche per altro verso "valido", occorrendo ad esempio controllare se per lo specifico atto la legge richieda una particolare forma ad substantiam, in difetto della quale previsione la forma dovrà considerarsi libera.
      La delega, per evitare che il trasferimento si risolva in discarico arbitrario delle responsabilità, precisa anche che il trasferente non è esente dalle medesime se non nei limiti in cui effettivamente il trasferimento si sia perfezionato e solo per il "tempo" in cui abbia operato realmente, potendo il trasferente riassumere le funzioni trasferite, riassumendo di conseguenza tutte le relative responsabilità.
      Il comma [4] stabilisce il titolo per il quale e il limite entro il quale il trasferente risponde anche in presenza di un trasferimento di funzioni effettivo e lecito. Il trasferente, in quanto eserciti funzioni di vertice o comunque organizzative e/o di direzione, può rimanere responsabile per le sue azioni o omissioni che producano quei "difetti" dell'articolazione dell'ente che concorrano a cagionare il fatto di reato. Si pensi alla difettosa organizzazione dello stabilimento industriale che renda inutili i dispositivi di sicurezza localizzati (ad esempio un difettoso impianto elettrico generale che renda inefficaci i meccanismi antincendio collocati in alcuni settori dello stabilimento). Il progetto rende qui chiaro che i due profili di attribuzione della responsabilità vanno al contempo tenuti ben distinti: un conto è la responsabilità per il non corretto esercizio della particolare funzione che si sia trasferita, altro è la responsabilità per la difettosa organizzazione dell'ente. Il trasferente non risponde più per le funzioni trasferite, ma per le funzioni di vertice o comunque di organizzazione e direzione di cui rimanga titolare e nei soli limiti degli obblighi che queste ultime contengano.
      Come detto, il progetto determina tassativamente le cosiddette posizioni di garanzia, richiedendo una espressa previsione di legge degli "obblighi giuridici di impedimento". Il sistema complessivo dei medesimi si articola secondo una scansione
 

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che fa interagire la parte generale e la parte speciale del diritto penale, ma stabilendo la centralità della parte generale nel fissare le ipotesi fondamentali alle quali le altre vanno raccordate. Non è escluso che la parte speciale preveda ulteriori responsabilità per omesso impedimento dell'evento. La parte generale, con l'articolo 4, limita la responsabilità per l'omesso impedimento di offese a beni fondamentali: vita, integrità fisica, libertà personale e sessuale.
      L'articolo [13] prevede la "Protezione e custodia di minori o incapaci", ascrivendo la posizione di garanzia verso i minori e gli incapaci, in rapporto ai beni appena indicati, ai genitori esercenti la potestà nonché a chiunque ne abbia assunto la custodia.
      L'articolo [14] prevede il "Controllo su fonti di pericolo" per la vita e l'incolumità fisica di una persona sorvegliata o protetta o di altri che possa essere offeso dalla medesima; nonché il controllo di animali pericolosi o di altre fonti di pericolo per la vita altrui o per l'incolumità individuale o pubblica.
      L'articolo [16] prevede l'"Omesso impedimento di reati commessi con il mezzo della stampa o di altri mezzi di comunicazione".
      L'articolo [15] prevede l'"Omesso impedimento di reati da parte delle Forze di polizia", limitando la responsabilità alle offese alla vita, alla salute, all'integrità fisica e alla libertà personale e sessuale; stabilendo anche che il pericolo da fronteggiare sia "attuale" e "strettamente connesso" alla "specifica attività esercitata". Lo scopo della disposizione è quello di contenere la responsabilità per omesso impedimento dell'evento alle ipotesi particolarmente gravi in cui la posizione dell'appartenente delle Forze dell'ordine possa dirsi davvero essenziale alla tutela dei beni in pericolo. Dal sistema della delega deriva altresì che le Forze dell'ordine rispondono solo se l'obbligo possa realmente definirsi di impedimento in ragione dei poteri esercitati che devono risultare senz'altro "impeditivi", cioè particolarmente penetranti e tali da garantire il risultato, almeno ad una valutazione ex ante. Tutto ciò in linea (con il) e in ulteriore specificazione del disposto dell'articolo [11] comma [4].
      Quanto all'elemento psicologico del reato la delega mira a perfezionare l'impianto fondamentale di ordinamento fondato sull'esclusione di ogni forma di responsabilità oggettiva, in ossequio alla piena applicazione del principio costituzionale della personalità della responsabilità penale. Il presupposto dell'elemento psicologico sta nella capacità di intendere e volere (articolo [17]) e nella capacità di controllo della particolare condotta (articolo [17, comma 2]). Il comma 1 dell'articolo [17] richiede la capacità di dominio del fatto; mentre del fatto (eventualmente) costretto, per violenza o minaccia, secondo i princìpi, risponde l'autore dell'una o dell'altra. L'articolo [17], comma [2], appare chiarificatore della disciplina e della struttura dell'imputazione, rispetto al codice del '30 (articolo 42, primo comma), nel definire "coscienza e volontà della condotta" con la nuova formula della "dominabilità della condotta"; stabilendo dunque con maggior chiarezza il rapporto tra questa, che è la base dell'imputazione psicologica, e i fattori dell'imputazione psicologica "in atto" che consistono nel dolo o nella colpa.
      Gli articoli [18, 19, 20 e 21] definiscono le tre forme fondamentali di dolo stabilendo che esso può consistere nell'intenzione del fatto (dolo intenzionale) nella rappresentazione della sua realizzazione certa (dolo diretto) ovvero non certa, purché altamente probabile (dolo indiretto o eventuale). Lo scopo del progetto, in questo luogo delicatissimo del sistema dell'imputazione, è quello di demarcare più nettamente e significativamente l'area del dolo da quella della colpa, compiendo la impegnativa scelta di politica penale di ridurre l'ambito del punibile (a titolo di dolo), contenendo il reato doloso alle sole ipotesi in cui, al di là del ragionevole dubbio, il giudice accerti che il soggetto abbia realizzato il fatto con la consapevolezza di un elevato rischio di concreto accadimento del fatto costitutivo del reato.
 

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      L'area della punibilità a titolo di colpa [articolo 20] si definisce a partire dalla convinzione di non realizzare in concreto un rischio elevato. Il che, da una parte, dovrebbe dar conto della concreta realtà applicativa in cui il giudice riconosce il dolo nelle sole ipotesi in cui appunto vi sia un indice forte del pericolo e questo venga rappresentato dall'agente, altrimenti propendendo sempre per la responsabilità per colpa (si pensi a settori nevralgici come quello della circolazione stradale); dall'altra vale a riqualificare la colpa come elemento soggettivo di appartenenza certa alla sfera del "punibile", riassorbendo in essa l'ipotesi di una forma intermedia di dolo "di rischio" che il progetto ha ritenuto di dover escludere.
      L'articolo [19] prevede la "concreta prevedibilità" dell'evento offensivo come criterio di imputazione del fatto a titolo di colpa. La colpa, alla luce di quanto appena detto, si fonda sulla concreta prevedibilità di un rischio anche non elevato dell'evento medesimo. Nel caso di astratta previsione di un rischio elevato, poi escluso in concreto dall'agente, ma a torto, perché egli, prestando maggiore attenzione non avrebbe dovuto escluderlo, si configurerebbe l'ipotesi normalmente definita di colpa cosciente o con previsione (prevedibilità in concreto di un rischio elevato, misconosciuto dall'agente per superficialità, ancorché lo avesse astrattamente previsto).
      Secondo l'articolo [20] la "concreta prevedibilità" dell'evento costituisce il criterio di imputazione di ogni forma di colpa, anche quella "specifica", per inosservanza di leggi, regolamenti ordini o discipline, escludendo così alla radice ogni ipotesi di imputazione psicologica che trascuri l'elemento più genuinamente personalistico. La mera violazione oggettiva della norma cautelare non può costituire in colpa.
      Secondo i princìpi della delega il canone della colpevolezza viene pienamente rispettato anche nel caso di reati dolosi aggravati da una conseguenza non voluta, che è ascrivibile all'agente solo per colpa, nell'ipotesi di espressa previsione del corrispondente reato colposo [articolo 21].
      Quanto all'errore sulla legge penale il progetto chiarisce che l'errore inescusabile sulla legge penale è solo quello inevitabile [articolo 22].
      L'articolo [23] riprende la disciplina dell'errore sul fatto o sulle scriminanti contenuta nel codice del' 30, specificando che l'errore essenziale può ricadere anche sugli elementi di qualificazione; quindi non semplicemente sugli elementi naturalistici strettamente intesi, anche sotto questo profilo la delega consacra un'ulteriore affermazione del principio di colpevolezza. Il comma [2] dell'articolo disciplina l'importante figura dell'errore sugli elementi differenziali, stabilendo la punibilità per il reato meno grave.
      Per l'errore determinato dall'altrui inganno la delega rinvia ai princìpi generali sull'errore essenziale, con ascrizione della responsabilità all'autore dell'inganno [articolo 24].
      Uno dei profili di maggiore novità del progetto riguarda la ridefinizione delle cause di non punibilità ampiamente intese che nel codice del '30 costituiscono almeno letteralmente, per la formula usata dal legislatore, una categoria indistinta, da precisare nei suoi contenuti e per gli effetti da collegare alle diversissime fattispecie che quella formula testualmente denota. La scelta rigorosa fatta dalla delega non è dovuta soltanto all'esigenza di fare chiarezza nel sistema nel suo complesso, quanto e soprattutto a quella di risolvere molti e concreti problemi applicativi. La delega muove dalla adozione di un criterio nominalistico che permetta di distinguere in modo inequivoco la tipologia delle cause che escludono l'applicazione della pena, lasciando alla formula "cause di non punibilità" un campo senz'altro residuale che ha per oggetto le fattispecie che escludono la sola pena, presupponendo che un reato sia stato già realizzato.
      L'articolo [27] prevede la tassativa enunciazione delle scriminanti, indicando anche la loro efficacia "oggettiva". Particolare rilievo ha il comma [3] che stabilisce la equiparazione della scriminante alla causa di incompletezza del fatto in senso stretto ("In presenza di una scriminante,
 

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il fatto di reato si considera insussistente"). Il comma si propone di stabilire e rendere chiaro che l'accertamento della scriminante rende superfluo l'accertamento approfondito del fatto in senso stretto. A seguito dell'equiparazione, in presenza di una scriminante il giudice pronuncerà sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste e non più perché il fatto non costituisce reato. Rimarrà ferma la disciplina extrapenalistica speciale, là dove sia prevista (vedi articolo 2045 del codice civile).
      L'articolo [28] disciplina il consenso dell'avente diritto. Esso prevede anche che il consenso scrimina solo se è prestato da chi ha la "capacità di comprenderne il significato e di valutarne l'effetto"; disciplina altresì il "consenso presumibile", configurandolo quale scriminante, ma circondandolo di cautele rigorose ancorandolo a limiti oggettivi di operatività. Il consenso non effettivamente prestato, ma presumibile del titolare del bene offeso deve risultare tale alla luce della sua "verosimile utilità obiettiva" per il titolare medesimo. Quindi la valutazione non è lasciata a soggettive e arbitrarie considerazioni dell'autore del fatto, ma deve essere verificata alla luce di precisi riscontri oggettivi. Il comma [4] stabilisce anche che presupposto indefettibile della scriminante sta in che il titolare del bene non abbia manifestato il suo dissenso.
      L'articolo [29] prevede la scriminante dell'esercizio di una facoltà legittima o adempimento di un dovere riprendendo la disciplina del codice del '30, salvo che per l'errore sulla illegittimità dell'ordine della pubblica autorità regolato dall'articolo [37].
      Quanto alla scriminante della legittima difesa [articolo 30] la delega esplicita i parametri della proporzione tra offesa e difesa: "beni in conflitto", "mezzi a disposizione della vittima" dell'aggressione ingiusta nonché "modalità concrete dell'aggressione" medesima. La specificazione è in linea con la migliore giurisprudenza in merito. La delega precisa anche che la preordinazione della difesa a scopo offensivo non scrimina. L'attuale articolo 52 del codice penale non è altrettanto chiaro sul punto.
      Quanto alla scriminante dell'uso legittimo delle armi o di altri mezzi di coazione fisica la delega [articolo 31] riprende la disciplina del codice attuale con una significativa novità che tien conto di pressanti esigenze, generalmente avvertite, di tutela del domicilio a fronte di un numero crescente di pericolose aggressioni. Prevede invero la scriminante dell'uso di armi se il soggetto è costretto a difendere l'inviolabilità del domicilio "contro un'intromissione ingiusta, violenta o clandestina, e tale da destare ragionevole timore per l'incolumità o la libertà delle persone presenti nel domicilio". Quindi non si tratta di facoltà indiscriminata. Tutt'altro: la scriminante si fonda su un rischio rilevante per la vittima visto che l'invasione del domicilio deve mettere in pericolo beni fondamentali come l'incolumità e la libertà personale. La disposizione richiede inoltre che il timore per le dette offese sia "ragionevole"; il che esclude che possa scriminare la reazione mediante armi ispirata a impulsi non sorvegliati o ad arbitrarie valutazioni non suffragate da riscontri oggettivi. L'articolo riserva alla legge l'eventuale previsione di ulteriori casi in cui è facoltizzato l'uso di armi o di altra coazione fisica.
      La scriminante dello stato di necessità è disciplinata dall'[articolo 32] mentre la parallela ipotesi di necessità scusante è disciplinata dall'articolo [33]. La scriminante corrisponde alla necessità regolata dall'articolo 54 del codice vigente.
      L'articolo [33] prevede le "scusanti", anche per le quali opera il detto criterio ricognitivo nominalistico. Si tratta di situazioni già note alla nostra tradizione e regolate dalla giurisprudenza, talora ricorrendo, almeno implicitamente, all'applicazione analogica in bonam partem delle scriminanti. La delega, seguendo il principio di tassatività anche per le cause che escludono il reato, ha tenuto conto della necessità di una loro espressa e più adeguata regolamentazione. Le scusanti operano "soggettivamente" (articolo [33, comma 2]); perciò richiedono, se presenti,
 

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la formula di assoluzione perché il fatto "non costituisce reato". Si tratta invero di fattispecie in cui ragioni oggettive, pur esistenti, non sono bastevoli ad escludere il reato. L'efficacia esclusoria del reato si perfeziona per un quid pluris di natura soggettiva.
      Tanto accade per la scusante della "buona fede" [articolo 34], che dà conto di importanti realtà riconosciute da significativi indirizzi giurisprudenziali, corrispondendo a sicure motivazioni di giustizia e opportunità. Va tutelato e comunque non può essere misconosciuto l'affidamento che il privato ripone nei comportamenti della pubblica amministrazione. La buona fede presuppone l'illegittimità del fatto commesso, dovendo perciò escludersi la scriminante dell'articolo [29]. Essa si fonda tuttavia sulla ragionevolezza oggettiva della conformità del fatto commesso a inequivoci atti della pubblica amministrazione, ovvero al consolidato orientamento della Cassazione, richiedendo anche che il soggetto fosse "convinto" di conformarsi a quegli atti o a quell'orientamento. Il sommarsi di queste due ragioni, oggettiva e soggettiva, neutralizza il significato di disvalore del fatto commesso; rimanendo perciò fermo che l'efficacia esclusoria del reato, che l'articolo [34] riconosce alla buona fede, non può considerarsi di valenza puramente oggettiva.
      [L'articolo 35] prevede la scusante della "attività sportiva". Sono note le ragioni per le quali in non pochi casi l'attività sportiva produce eventi offensivi oggettivamente non scriminati dalle espresse disposizioni di legge. Ecco perché la scusante opera, secondo la testuale dizione dell'articolo [35], "Fuori dei casi di liceità del rischio". Tuttavia, anche in ordine all'attività sportiva, possono concorrere nella fattispecie concreta i due momenti oggettivo e soggettivo di integrazione della scusante: la ragionevolezza oggettiva della conformità del fatto commesso alle regole settoriali e la convinzione del soggetto di adeguarvisi. L'elaborazione dottrinale e gli indirizzi giurisprudenziali consentono senz'altro di confermare l'opportunità di prevedere la scusante in esame, che del resto corrisponde al comune sentire.
      [L'articolo 36] prevede la scusante delle "informazioni commerciali", secondo i criteri già enunciati per le altre scusanti. Anche per le "informazioni commerciali" la tradizione sembra senz'altro attestare l'opportunità della previsione.
      [L'articolo 37] completa in un certo senso la disciplina dell'articolo [31] quanto all'ordine della pubblica autorità, configurando come scusante la "ignoranza dell'illegittimità dell'ordine", che ha incerta e comunque non espressa natura secondo il codice vigente. Si tratta dell'ordine illegittimo e non sindacabile: la scusante opera "sempre che la criminosità dell'ordine non sia manifesta o comunque nota all'esecutore".
      Indiscutibile importanza pratica ha la scusante dell'"ordine del privato" prevista [dall'articolo 38]. L'efficacia della scusante si basa sulla particolare autorità di chi emana l'ordine. L'autorità fondata sul rapporto di lavoro rende inesigibile un comportamento censorio da parte del dipendente se l'ordine attenga al rapporto di dipendenza e il dipendente non abbia ricevuto segnali che lo allarmassero circa l'illegittimità dell'ordine a lui impartito. In questo senso il dipendente deve aver operato in circostanze che dal punto di vista oggettivo non indicassero "ragionevolmente" detta illegittimità e il medesimo deve aver concretamente confidato nella conformità dell'ordine alla legge. La situazione regolata [dall'articolo 38], in altri termini, non lascia margini di dubbio circa l'atteggiamento del dipendente in quanto ispirato all'ossequio della legalità. Appare perciò garantita la giustizia e l'opportunità di tale scusante a tutela del lavoratore.
      [L'articolo 39] prevede lo stato di necessità scusante, perché non fondato sul sicuro bilanciamento dei beni in conflitto, ma sulla inesigibilità di un diverso comportamento a fronte di pericoli corsi da persone particolarmente legate all'agente da vincoli affettivi.
      [L'articolo 40] prevede l'affidamento nel consenso altrui, considerando scusato il fatto commesso nell'interesse proprio
 

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dell'agente, ma nell'ipotesi in cui egli confidi ragionevolmente che il titolare del bene disponibile avrebbe consentito. Si tratta anche qui di casi del vivere comune nei quali urta contro il buon senso il farne oggetto di una pretesa punitiva. Tenerne conto nel novero delle scusanti contribuisce anche ad un corretto alleggerimento dei carichi processuali.
      La disciplina del reato tentato (articolo [41]) è informata a un netto chiarimento della natura oggettiva della sua struttura e nel senso di fissare un limite più sicuro all'inizio dell'attività punibile. Perciò la sua fattispecie materiale richiede che gli atti compiuti siano diretti in modo "oggettivamente univoco" al compimento del reato. La delega, in tale maniera, rinuncia definitivamente all'idea di un ritorno alla distinzione tra atti preparatori o esecutivi, chiarendo che l'elemento materiale del reato può consistere solo in atti "esternati" e diretti al reato secondo la loro "univoca maturazione oggettiva". Soccorre poi l'ulteriore elemento della "idoneità dell'atto" in armonia con il codice vigente.
      [L'articolo 42] disciplina la desistenza e il recesso.
      Il comma [3 dell'articolo 41] estende ai reati di attentato gli elementi costitutivi del tentativo, che risultano così gli elementi "minimi" che il sistema concepisce nelle forme di anticipazione della tutela, senza i quali la pena va esclusa.
      La delega elabora una disciplina molto articolata del concorso di persone mirando a garantire la determinatezza di tale fattispecie che forse più di ogni altra ne abbisogna per la formula molto ampia utilizzata dal codice vigente.
      L'articolo [43] enuncia le diverse forme di contributo al reato dei concorrenti distinguendo in apicibus tra il contributo dell'esecutore e il contributo del partecipe (comma 1). Il comma 1 indica poi anche le forme di partecipazione (promozione, organizzazione, direzione e agevolazione) che vengono definite nei commi seguenti.
      Di particolare significato appaiono le formule dei commi [5 e 6] nel definire gli atti di agevolazione e di esecuzione, che contengono la maggior parte delle fattispecie che la realtà applicativa ha dimostrato essere le più problematiche da accertare.
      Il comma [5], riprendendo anche formule contenute nel progetto Pagliaro, rapporta il contributo agevolatore alla sua efficacia causale che definisce nei termini di una maggiore prontezza o sicurezza della ideazione, preparazione o esecuzione del reato. In tal modo il progetto rende l'accertamento del contributo nettamente più concreto perché impone al giudice di verificare se realmente il singolo concorrente abbia materialmente portato al fatto un quid pluris (contributo individualizzante) che si sia riflesso effettivamente sul fatto storico.
      Lo stesso comma [5] richiede poi che l'aiuto o l'assistenza del concorrente si siano esternati secondo forme tipiche: indicazioni, informazioni, consigli. Questi devono avere una connotazione ben precisa nel senso di esprimere una loro precisa valenza criminosa. Ciò, nel senso che il comma richiede che essi non consistano in generiche osservazioni sfruttate poi dai concorrenti, ma siano accertabili nella loro oggettiva direzione proprio in qualità di impulsi mirati alla realizzazione del reato. Esso prevede alternativamente che la condotta di agevolazione si sia espressa "fornendo mezzi o strumenti o eliminando impedimenti oppure promettendo in anticipo aiuto". L'elenco appena ricordato appare al contempo non debordante ed esaustivo, non emergendo altre condotte meritevoli di considerazione secondo la risalente tradizione in tema di concorso di persone.
      Il comma 6 definisce come esecutori coloro che commettono in tutto o in parte il fatto previsto come reato, annoverando poi tra gli stessi coloro che si servono di altri in errore o incapaci ovvero oggetto di violenza o minaccia.
      L'articolo 44 nel disciplinare la responsabilità dei concorrenti stabilisce che il concorrente non risponde se non si configura un tentativo punibile del reato. Fissa cioè la soglia sotto la quale nessun atto di partecipazione può essere punito
 

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perché non attingerebbe nemmeno gli estremi del tentativo [comma 1].
      L'articolo 44 stabilisce poi il principio secondo cui ogni concorrente risponde secondo la sua colpevolezza chiarendo anche che la partecipazione colposa al fatto doloso o colposo dell'esecutore può essere punita solo se è prevista la corrispondente responsabilità colposa (comma 2). Il comma 2 è orientato senz'altro alla valutazione differenziata dei concorrenti anche ai fini della determinazione della pena in concreto.
      I commi 3 e 4 stabiliscono i limiti di comunicabilità delle cause di esclusione del reato o della pena, estendendo a tutti i concorrenti le sole cause oggettive di esclusione del reato, secondo la tradizione.
      L'articolo [45] prevede una attenuante per l'agevolatore, ma solo se in concreto il suo contributo sia stato di rilevanza oggettivamente modesta.
      L'articolo [46] disciplina innovativamente la desistenza e il recesso del concorrente. Ragionevolmente il progetto premia il concorrente che desiste o recede con atti efficaci o comunque idonei a impedire la consumazione del reato.
      Quanto alla figura della variante al piano comune la delega, nel pieno rispetto del principio di colpevolezza, la ascrive al concorrente che non partecipi ad essa solo sul presupposto della colpa e sempre che quel fatto sia previsto dalla legge come reato colposo.
      Quanto ai reati associativi o a concorso comunque necessario l'articolo [46] estende ad essi le disposizioni sul concorso eventuale.

Imputabilità.

      Fermo rimanendo il riferimento all'"imputabilità" - nozione classica e tradizionale del diritto penale italiano - nell'intitolazione del [Titolo V], appare preferibile eliminare il cosiddetto "doppio passaggio" (da punibilità a imputabilità; da imputabilità a capacità di intendere e di volere), quale risultante dal sistema del codice penale del 1930, siccome inutile e complicatorio, e focalizzare la norma sulla capacità di intendere e di volere.
      Il requisito in questione, che deve sussistere ovviamente nel momento della realizzazione della condotta costitutiva del reato (non avendo rilievo quello, successivo e distaccato, della verificazione dell'evento naturale), viene definito, secondo nozioni generali ormai acquisite, con riferimento alla possibilità di comprendere il significato del fatto (capacità di intendere) ovvero di agire in conformità a tale valutazione (capacità di volere).
      Non si ritiene, invece, di esplicitare il cosiddetto "nesso eziologico" tra incapacità e fatto, in quanto si preferisce lasciare al giudice di valutare se, nel caso concreto, esisteva la capacità nel momento del fatto ed in relazione alla specie di esso, senza gli inevitabili irrigidimenti derivanti dal problema del trattamento da riservare al fatto del tutto svincolato dall'incapacità (si faccia il caso del maniaco sessuale che commetta una bancarotta e degli inconvenienti conseguenti alla necessaria declaratoria di capacità).
      In tale primo articolo [48] viene altresì stabilito il principio di "tassatività" delle cause incidenti sulla capacità di intendere e di volere, onde evitare le incertezze derivanti dalla tesi dell'"analogia in bonam partem".
      Parimenti viene prevista, una volta per tutte, la regola secondo cui al soggetto vanno applicate, nei vari casi, sussistendone i presupposti, le misure di sicurezza, di rieducazione e di sostegno necessarie.
      Quanto alle cause esclusive della capacità di intendere e di volere, si ritiene irrinunciabile il riferimento all'infermità, pur tenendosi presenti i diversi orientamenti teorici, sulla base delle classiche acquisizioni scientifiche della psichiatria, della criminologia e della medicina legale, onde evitare gli sbandamenti applicativi - con apertura a tutti i più originali e diversificati fenomeni in chiave meramente psicologica od emozionale - quanto mai da impedire in questo delicato campo, quali connessi a formule generiche ed onnicomprensive del tipo "disturbo psichico", "disturbo della personalità", "psicopatia"

 

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(fenomeni, secondo prassi censurabili, valutati anche da non specialisti psichiatrici o medico-legali e sulla base di parametri socio-culturali, tipo l'abusata figura del soggetto cosiddetto "border line").
      Come ulteriore approfondimento della disciplina si precisa che al vizio totale (incapacità assoluta) va equiparato, nel trattamento, il vizio pressoché totale, onde non mettere il perito nella drammatica alternativa di non riuscire a chiarire, in termini scientifici, se l'incapacità è veramente assoluta.
      Le vecchie ipotesi (codice Rocco) di "vizio parziale di mente", non più specificamente disciplinate in quanto tali, vanno trattate, nel caso di considerevole riduzione della capacità, come danti luogo a specifica riduzione di pena (salva, in base ai princìpi generali, l'eventuale sottoposizione a misura di sicurezza). In tal modo si evita al perito ed al giudice di prendere posizione su una figura indubbiamente ambigua al fine della capacità, pur lasciandogli la possibilità di graduare concretamente la pena alla stregua di tale particolarissima situazione mentale.
      Quanto ai minori si decide, dopo attenta valutazione, di mantenere l'età minima a 14 anni, e non a ridurla a 12 - come talune dottrine vorrebbero - in considerazione dell'insufficiente sviluppo, sia fisico che psichico, della persona in età evolutiva. Al di sotto dei 14 anni deve essere mantenuta la cosiddetta "presunzione assoluta" di incapacità, salva l'eventuale applicazione di misure adeguate.
      Per i minori fra i 14 ed i 18 anni si adotta il regime, attualmente vigente, dell'accertamento in concreto della capacità, precisata con riferimento alla maturità fisio-psichica, secondo orientamento ormai tradizionale.
      Merita una trattazione autonoma la cosiddetta "actio libera in causa", in quanto si tratta di disciplinare il fenomeno di chi si mette volontariamente e colposamente in stato di incapacità e del titolo di elemento psicologico rilevante nel reato commesso.
      Si ritiene l'unico valido e possibile, a tal proposito, il regime dell'imputazione a titolo di dolo se, al momento dell'incapacità, il soggetto ha previsto il fatto di reato; dell'imputazione a titolo di colpa (con pena autonoma, ove non esista la fattispecie colposa) se, nello stesso momento, il fatto di reato era prevedibile.
      Nel caso di "preordinazione" alla commissione di reati si prevede un aumento di pena.

Il sistema sanzionatorio.

      La Commissione ha rifiutato, fin dalle prime riunioni consultive, la svolta ispirata a una restaurazione della potestà punitiva contrassegnata dall'inasprimento delle pene. Al contrario, la riflessione iniziale ha indicato nettamente la necessità di attestarsi su una linea di equilibrio segnata dalla previsione di pene meno afflittive delle attuali, ma caratterizzata dalla ricerca della loro effettività.
      Il fondamento costituzionale della funzione rieducativa della pena ha costituito l'indicazione programmatica più pregnante, dalla quale è derivata l'adozione di un modello sanzionatorio caratterizzato da un'elevata flessibilità, utilizzabile compiutamente già dal giudice di cognizione. L'anticipazione della flessibilità della risposta sanzionatoria al momento del giudizio ha consentito di contenere al minimo, considerati i limiti della delega ministeriale, l'effetto a cascata delle innovazioni proposte sulla vigente disciplina dell'esecuzione penale e sull'ordinamento penitenziario.
      L'orientamento a favore di pene meno afflittive delle attuali può sembrare contraddetto dalla scomparsa della pena pecuniaria e dal mantenimento della pena dell'ergastolo. Per quanto riguarda la pena pecuniaria, la sua eliminazione è spiegata dalla scelta di fondare l'apparato sanzionatorio prevalentemente su sanzioni principali "personali", detentive o paradetentive, interdittive e prescrittive, limitando conseguentemente il ricorso alla sanzione principale ablativa della confisca. Ciò è stato suggerito altresì dal rilievo che, in un progetto di codice penale che ha espunto

 

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il binomio delitti-contravvenzioni in quanto prevede un'unica categoria di reati, nella quale sono state inglobate anche le poche contravvenzioni non depenalizzate, la pena pecuniaria sarebbe fonte di confusione e di disorientamento delle valutazioni della collettività; ciò perché, a causa del profilo non personalistico che la caratterizza essa risulta indistinguibile, in concreto, dagli esiti della giustizia conciliativa penale e, riduttivamente, di quella penale amministrativa. A queste considerazioni si aggiungono, inoltre, le perplessità relative all'efficacia deterrente della pena pecuniaria, connesse alla sua incerta esazione.
      Per quanto riguarda l'ergastolo, il suo mantenimento, deliberato a maggioranza dalla Commissione, è ridotto a pochissimi casi di reati eccezionalmente gravi. C'è da aggiungere, inoltre, che in concreto l'irrogazione dell'ergastolo può avvenire soltanto se non sussiste neppure una circostanza attenuante. A tale scopo è stata, infatti, introdotta una disciplina speciale del concorso eterogeneo di circostanze, in forza della quale, se la pena edittale è l'ergastolo, le circostanze attenuanti devono essere valutate per prime, mentre le circostanze aggravanti sono applicate sulla pena della reclusione sostituita all'ergastolo. Per effetto di questa disciplina, la pena dell'ergastolo potrà essere effettivamente inflitta soltanto se non sarà configurabile in concreto alcuna circostanza attenuante dei gravissimi reati per i quali edittalmente è previsto l'ergastolo; resta escluso, infatti, il ritorno all'ergastolo per effetto di eventuali aggravanti, perché queste potranno aumentare soltanto la durata della reclusione, nello spazio compreso tra il minimo per essa previsto come pena sostitutiva dell'ergastolo e il tetto massimo da essa raggiungibile. Inoltre, l'abbassamento generale del livello delle pene, da un lato comprende anche la reclusione sostituita all'ergastolo in presenza di un'attenuante (venti anni e non ventiquattro anni, come massimo), dall'altro determina l'anticipazione dei limiti di pena scontata che aprono la possibilità della liberazione condizionale (venti anni, in luogo di ventisei anni).
      Sempre nel quadro degli orientamenti programmatici, la propensione verso il modello rieducativo dà la spiegazione di una serie di aggiustamenti relativi ai rapporti tra prevenzione generale e prevenzione speciale, operati nel senso di mitigare la preminenza della prima sulla seconda: ad esempio, nel rispetto del principio di proporzione tra reato e pena, per un verso sono state previste come pene principali un cospicuo numero di sanzioni prescrittive o interdittive mirate sul reo, in modo che la connessione tra reato e pena potesse essere resa trasparente già attraverso la previsione edittale della conversione della reclusione in altra pena, indicativa di una specificità della conseguenza afflittiva che sia spiegabile con istanze precise di prevenzione speciale; per l'altro verso, mentre sono state eliminate le misure di sicurezza per gli imputabili è stata ripristinata l'obbligatorietà della recidiva e ne è stata rivalutata la rilevanza.
      Un punto non trascurato, nell'ambito delle considerazioni sulla funzione della pena nella società attuale, è costituito dal bisogno di retribuzione giuridica costantemente espresso dall'opinione pubblica, che è portata a ritenere che l'assenza delle conseguenze afflittive per il reato che è stato commesso sia una delle cause dell'esposizione al crimine e quindi del deficit di sicurezza che i cittadini avvertono. Queste considerazioni hanno portato la Commissione a recepire i princìpi della retribuzione relativi alla correlazione tra la gravità del delitto ed il grado della colpevolezza e la conseguente severità della sanzione. Tuttavia, la proiezione del princìpio nel concreto della percezione sociale dei fenomeni criminosi ha indotto la Commissione a ritenere, in ossequio al canone dell'extrema ratio, che la pena della reclusione possa essere di regola convertita, nei casi stabiliti dalla legge e secondo criteri di ragguaglio da essa determinati, in altra pena detentiva o restrittiva della libertà personale meno afflittiva della reclusione e anche in altre pene interdittive, prescrittive o ablative; le statuizioni della
 

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parte speciale, sul punto della conversione, saranno pertinenti a classi di reati o, talvolta, a singole figure di reato. Inoltre, la Commissione ha recepito il principio introdotto nella giustizia conciliativa penale, in ragione del quale non è necessaria l'inflizione della pena quando l'offensività del reato sia sicuramente esigua e, insieme, sia minimo il grado di colpevolezza manifestato dall'agente. Ne è derivata la proposta di introduzione del perdono giudiziale per gli adulti, ferma restando la disciplina relativa ai minori.
      Anche se trovano collocazione nell'ambito delle sanzioni civili ovvero delle obbligazioni civili da reato, il risarcimento del danno e la riparazione alla vittima giocano un ruolo, sia pur limitato, anche all'interno del sistema sanzionatorio, ad esempio nelle condizioni per la concessione della sospensione della pena, della liberazione condizionale, della riabilitazione, istituto quest'ultimo che è stato valorizzato. Un discorso a parte deve essere riservato alla confisca, che, per determinati reati, può coprire almeno parte dell'afflittività complessiva della sanzione. Per escludere la mercantilizzazione della responsabilità penale, la sanzione principale ablativa della confisca è tenuta distinta dal risarcimento del danno, anche se è eseguita per un importo ad esso corrispondente; la somma è acquisita dallo Stato per essere finalizzata alla riparazione alle vittime di reati, versante sul quale lo Stato ha assunto obblighi internazionali, o al ripristino dello stato dei luoghi.
      L'esigenza fortemente condizionante di contenere l'altrimenti ingestibile sovraffollamento carcerario e la sfiducia, motivata dal recidivismo, verso la pena detentiva come unica pena rieducativa, ha indicato realisticamente gli obiettivi primari della riforma. La Commissione ha largamente concordato sull'esigenza di ridurre, in linea generale, il livello delle pene edittali rispetto alle previsioni vigenti e soprattutto di ampliare l'arsenale sanzionatorio delle pene principali in modo che il ricorso alla pena detentiva potesse rappresentare l'extrema ratio. La previsione di un ampio ventaglio di sanzioni personali, diverse dalla pena detentiva e articolate in ragione regressiva, corrisponde all'intento di recuperare la certezza e l'effettività della pena, in considerazione del rilievo che l'ineffettività investe tanto la pena detentiva quanto quella pecuniaria.
      La previsione di un vasto apparato di sanzioni principali personali corrisponde dunque all'intento di recuperare l'effettività della pena e, insieme, di ricorrere alla reclusione secondo il criterio dell'extrema ratio. Ciò posto, l'esigenza di garantire al massimo grado il rispetto del criterio di proporzione tra reato e sanzione ha persuaso la Commissione dell'opportunità di ricorrere a un'"unità di misura" edittale della gravità del reato. Questa unità di misura è di regola rappresentata dalla reclusione, salvi i casi di eccezionale gravità puniti con l'ergastolo, e sarà la stessa unità di misura nella quale il giudice dovrà esprimere con modulazioni quantitative della durata, la gravità del reato in concreto. Soltanto successivamente il giudice procederà alla conversione, in tutto o in parte, della reclusione in altra pena principale.
      Su questo snodo centrale è opportuno insistere con ulteriori specificazioni. Occorre infatti sottolineare, come premessa dell'argomentazione esplicativa, che il progetto di riforma ha espunto dal sistema penale le contravvenzioni, e dunque prevede soltanto reati, in una categoria unitaria nella quale sono venuti a confluire illeciti penali già denominati delitti e contravvenzioni "promosse" di rango.
      Sono state espunte dal sistema, dunque, la pena dell'arresto e quella dell'ammenda e, inoltre, l'eliminazione della pena pecuniaria della multa riduce ulteriormente, rispetto al codice vigente, il numero delle sanzioni dalla cui previsione legale risulta stabilito che il fatto così punito è un reato. Tale funzione, per così dire di "identificazione" della qualità di reato, nel progetto di riforma è assegnata di regola alla reclusione, salvi i casi eccezionali nei quali è previsto l'ergastolo. Sulla previsione della reclusione è dunque di regola basato il criterio distintivo tra illecito penale e
 

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illecito non penale e ciò vale anche per i reati che rientrano nella competenza per materia del giudice penale di pace. Ne segue che le altre pene, detentive o restrittive della libertà personale, interdittive, prescrittive o ablative, sono tutte pene principali, perché ciascuna di esse può esaurire in tutto o in parte le conseguenze sanzionatorie dell'illecito, ma non possono svolgere la funzione di identificazione distintiva del reato; questa fondamentale funzione è stata riservata alle pene detentive tradizionali e in tal modo risulta semplice e certa. Dopo aver identificato il reato, il giudice deve procedere alla valutazione della sua gravità in concreto, utilizzando la medesima unità edittale di misura, appunto la reclusione, quantificata ad hoc. Esprimere la gravità del reato in concreto con la durata della reclusione, non significa tuttavia che la reclusione sia la pena effettivamente da scontare. Infatti, secondo il progetto di riforma il giudice deve procedere di regola alla conversione della reclusione in altra pena, nei casi stabiliti dalla legge e secondo i criteri di ragguaglio previsti per i diversi tipi di sanzione. Ciò significa che, in pratica, nei casi di reati di gravità media, la reclusione quantificata dal giudice potrà divenire soltanto l'eventuale "pena di ritorno", ove sia intervenuta la violazione delle prescrizioni attinenti alle diverse pene in effetti scontate; ovviamente, in tale ipotesi dovrà essere computata sulla reclusione originariamente quantificata la parte di pena già scontata in forma diversa a seguito della conversione, e tale computo avverrà secondo i criteri di ragguaglio fissati per le pene diverse. Per i reati più gravi, la conversione avverrà in parte e competerà al giudice della cognizione, anche in tali casi, la conversione in anticipo, per scaglioni, della quantità di reclusione che dovrà essere scontata in forma diversa.
      Il momento della conversione designa l'apice del potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena. L'orientamento della Commissione è risultato favorevole, in linea generale, a un ridimensionamento del potere discrezionale relativamente all'avvicinamento dei limiti minimo e massimo della reclusione edittalmente prevista, nonché attraverso la previsione di figure autonome di reato in luogo di circostanze speciali, l'eliminazione del giudizio di prevalenza delle circostanze e l'abrogazione delle circostanze attenuanti generiche. Rispetto a queste prese di posizione, l'apparente revirement in tema di conversione della reclusione trova la sua compiuta spiegazione nel fermo intento di recuperare l'effettività della pena. Dunque, in luogo di sanzioni detentive, ove possibile peraltro da scontare nelle forme meno afflittive, largo spazio alle sanzioni interdittive, prescrittive e anche ablative, di effettiva applicazione. È ragionevole puntare sul recupero dell'effettività per almeno due motivi. In primo luogo, perché la sospensione condizionale della pena non si applica alle pene non detentive inflitte per effetto della conversione. In secondo luogo, perché il condannato è sollecitato all'osservanza degli obblighi inerenti a ciascuna delle pene interdittive o prescrittive applicate in sede di conversione, perché la violazione degli obblighi stessi determina la riconversione nella reclusione originaria, salvo il computo della pena già scontata, da effettuare secondo i criteri di ragguaglio. Inoltre, il potere discrezionale del giudice nel momento della conversione di pena, sebbene ampio, è pur sempre vincolato. Infatti, le pene applicabili in sede di conversione sono sempre indicate dalla legge, più spesso relativamente a classi di reati, ma a volte anche in rapporto a singole fattispecie criminose. Le indicazioni di parte speciale, peraltro, non servono soltanto a garantire la legalità della pena, ma servono anche a declinare in modo specifico la propensione, propria del modello rieducativo, verso la prevenzione speciale, perché garantiscono la possibilità concreta di adeguare il tipo di pena non soltanto al tipo di fatto ma anche al tipo di autore.
      L'ampia applicazione di pene principali diverse dalle pene detentive in carcere dovrebbe produrre una sensibile diminuzione del numero dei detenuti a seguito di condanna, anche tenendo conto del fatto che attualmente il numero delle condanne
 

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per vari motivi non eseguite è elevatissimo. L'effetto indotto dell'abbassamento di livello della pena edittale della reclusione dovrebbe altresì produrre la riduzione del numero dei detenuti in attesa di giudizio. A fronte di ciò, è ipotizzabile l'utilizzazione, in parte qua e nel rispetto dei princìpi del trattamento, anche della polizia penitenziaria in ordine ai controlli sull'osservanza degli obblighi inerenti alle pene applicate in sede di conversione. L'importanza e l'effettività dei controlli meritano di essere sottolineate; ciò perché il controllo rende visibile e quindi socialmente percepibile l'afflittività della conseguenza sanzionatoria. L'effetto positivo del controllo effettivo è duplice: sul piano della prevenzione generale, perché accresce la forza dissuasiva del precetto penale; sul piano del bisogno sociale di sicurezza, perché risponde all'esigenza retributiva sentita dalla collettività e perché l'attività di controllo, anche se mirata, potrebbe essere percepita dalla collettività sociale come una variante speciale della cosiddetta polizia di prossimità.
      Il progetto ha aumentato considerevolmente il numero delle pene principali, in ragione dell'innesto fra di esse di molte delle attuali pene accessorie, sanzioni sostitutive o modalità esecutive della reclusione. Nonostante ciò, il progetto ha mantenuto la distinzione tra pene principali e pene accessorie e ha preferito distaccarsi di regola, salvo che per la confisca, dall'orientamento espresso dal progetto Grosso, favorevole a una funzione promiscua di pena principale e anche di pena accessoria, assegnata alla medesima sanzione; tale scelta è stata operata perché, se la funzione promiscua ha senz'altro il pregio di una maggiore duttilità, essa presenta il difetto di essere una potenziale fonte di disorientamento. La Commissione, pur avendo stabilito che le pene continuino ad essere distinte in pene principali e pene secondarie o accessorie, secondo la terminologia tradizionale, ha ritenuto di restringere il numero delle pene accessorie, per evitare sovrapposizioni e per eliminare o almeno per ridurre il rischio di appiattimento delle pene principali sulle pene accessorie o peggio di confusione tra le une e le altre. Tale rischio, tuttavia, non è stato completamente eliminato, perché è stato necessario prevedere come pena accessoria, ad esempio, la pubblicazione della sentenza di condanna, quando essa non è disposta ai fini della riparazione del danno da reato, e la confisca, nei casi corrispondenti all'attuale misura di sicurezza patrimoniale obbligatoria. Come è stato già esposto, le pene principali si distinguono in: A) pene detentive o restrittive della libertà personale; B) pene interdittive; C) pene prescrittive; D) pene ablative.

      A). L'ergastolo è previsto per reati di eccezionale gravità. In concreto, l'applicazione dell'ergastolo è possibile soltanto se non sussiste alcuna circostanza attenuante. L'applicazione agli infradiciottenni è esclusa, perché l'età minore degli anni diciotto è espressamente prevista come attenuante. Il condannato all'ergastolo è ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno venti anni di pena.
      La reclusione consiste nella detenzione in carcere da cinque giorni a venti anni, con il massimo di anni ventiquattro nel caso di concorso di reati o di circostanze aggravanti. Il condannato alla reclusione può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato metà della pena, sempre che la pena residua non sia superiore ad anni quattro. La reclusione non superiore ad anni tre può essere convertita in semidetenzione, in tutto o come scaglione di maggior pena; analogamente avviene per la reclusione non superiore ad anni due rispetto alla detenzione domiciliare e per la reclusione non superiore a mesi sei riguardo alla permanenza domiciliare. Quest'ultima "non" è considerata pena "detentiva".

      B). Le pene principali interdittive sono perpetue o temporanee.
      La pena interdittiva perpetua è ragguagliata ad anni quattro di reclusione; le pene interdittive temporanee sono ragguagliate alla reclusione di durata corrispondente. Sono pene principali interdittive:

 

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          a) l'interdizione o sospensione dai pubblici uffici;

          b) l'interdizione o sospensione da una professione, da un'attività di impresa o da un mestiere;

          c) l'interdizione o sospensione dall'esercizio di funzioni gestionali o di controllo di persone giuridiche, enti, associazioni o imprese;

          d) la revoca o sospensione di licenze, concessioni, autorizzazioni amministrative o altre abilitazioni;

          e) la decadenza o sospensione della potestà di genitore.

      C). Le pene prescrittive sono ragguagliate, agli effetti della conversione, secondo il computo di cinque giorni di pena prescrittiva per un giorno di reclusione. A questo criterio di ragguaglio fa tuttavia eccezione la pena dell'affidamento al servizio sociale con prescrizioni, che è pena di conversione paritetica per la reclusione non superiore a tre anni, in toto o come scaglione di pena di più lunga durata; la sua applicabilità in sede di conversione totale della reclusione è riservata ai non recidivi.
      Sono pene principali prescrittive:

          a) l'allontanamento dalla famiglia;

          b) il divieto o la limitazione di accesso o di permanenza in determinati luoghi o il divieto di avvicinare determinate persone;

          c) la sottoposizione a controllo;

          d) il lavoro di pubblica utilità;

          e) l'espulsione dello straniero con divieto di reingresso;

          f) l'affidamento al servizio sociale con prescrizioni.

      D). Le pene principali ablative sono la confisca e la pena pecuniaria prevista per i reati di competenza del giudice penale di pace. La confisca consiste nell'acquisizione allo Stato di parte del patrimonio mobiliare o immobiliare del condannato, per un valore pari al risarcimento del danno, cui il condannato è comunque tenuto. Sotto questo versante, la pena ablativa della confisca è pena di conversione, ragguagliata secondo il computo di euro cinquanta per ogni giorno di reclusione e, per ragioni evidenti, è di applicazione privilegiata nei reati di cosiddetta delinquenza economica, imprenditoriale, ambientale o nei reati determinati da fini di lucro. La confisca opera tuttavia anche come pena accessoria, che deve essere sempre inflitta relativamente alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e che ne sono il prodotto o il profitto o che ne costituiscono il prezzo o ancora per le cose per le quali la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione o l'alienazione costituiscono reato.

      Il progetto di riforma ha promosso a pene principali molte delle attuali pene accessorie, che sono sembrate congrue come pene retributive nei limiti della proporzione, pur se orientate verso la prevenzione speciale. La rivalutazione è stata determinata dalla scelta del modello sanzionatorio rieducativo ed è convalidata dal pieno rispetto del principio di sussidiarietà. L'incremento delle pene principali ha prodotto un corrispondente decremento delle pene accessorie la cui previsione si colloca chiaramente in un'ottica che privilegia la prevenzione speciale; nel progetto esse si riducono a:

              a) la pubblicazione della sentenza di condanna;

              b) il divieto di emettere assegni e il divieto di utilizzare carte di credito;

              c) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione;

              d) il divieto di compiere determinate attività informatiche;

              e) la confisca obbligatoria.

      L'applicazione delle pene accessorie è limitata a classi di reati o a singoli reati, secondo le indicazioni della parte speciale.

      Nel sistema sanzionatorio adottato dal progetto, il potere discrezionale del giudice

 

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nell'applicazione della pena, per certi versi ridotto, è complessivamente rivalutato e qualificato. Si è detto del momento cruciale della conversione, ma va segnalata anche la scelta operata dalla Commissione in ordine alla commisurazione della pena. La valutazione della gravità del reato è infatti vincolata alla quantificazione del danno o del pericolo per l'interesse protetto, all'intensità del dolo o della colpa e ai motivi a delinquere, ma è altresì aperta alla considerazione delle modalità concrete, soggettive e oggettive, della realizzazione colpevole del reato, che ne costituiscono, per così dire, le circostanze intrinseche. L'esito di siffatta operazione ricostruttiva del reato ai fini del giudizio consiste nella determinazione della pena ad esso adeguata, compresa di regola tra il limite minimo e quello massimo della reclusione edittalmente prevista, limiti dei quali è stato ritenuto opportuno evitare l'eccessiva divaricazione. Determinata la pena base per il fatto di reato, il giudice deve prenderne in considerazione le circostanze in senso proprio, nominate e tipicizzate, il cui sistema generale è stato cospicuamente innovato. Nelle linee essenziali, l'orientamento della Commissione è stato quello di ridurre la valenza delle circostanze rispetto al fatto di reato, nella prospettiva dell'applicazione della pena. A tale scopo, si è proceduto a distinguere categoricamente le circostanze dal fatto, in forza di un'espressa e tassativa qualificazione delle circostanze; si è preferita la previsione di figure autonome del reato, che assorbono elementi corrispondenti alle vigenti circostanze speciali e ad effetto speciale, delle quali è stata ritenuta opportuna l'eliminazione; è stato contenuto lo sforamento del minimo o del massimo della pena edittale, per effetto del gioco delle circostanze, nella misura, rispettivamente, della metà dei limiti previsti dalla legge per il reato. Il ridimensionamento della valenza da attribuire agli elementi circostanziali ha comportato, come derivazione, la riduzione del numero delle circostanze comuni e una notevole restrizione delle previsioni di circostanze speciali. L'eliminazione delle circostanze attenuanti generiche è invece conseguente alla scelta di abbassare in radice il livello delle vigenti previsioni sanzionatorie e all'indirizzo di politica criminale, manifestato dalla Commissione, di voler operare per ridurre anche l'ampiezza dei poteri discrezionali del giudice in materia. A tale scopo, in accoglimento della proposta del progetto Pagliaro, non recepita invece dal progetto Grosso, si è ritenuto opportuno eliminare, nel caso di concorso eterogeneo di circostanze, il giudizio di prevalenza o di equivalenza; esso viene sostituito dalla regola dell'applicazione integrale di tutte le circostanze aggravanti o attenuanti pertinenti al reato, perché la considerazione del fatto nella situazione in cui si è verificato comporta che si deve tener conto dell'intera situazione: il reato non può essere soltanto aggravato o soltanto attenuato se la situazione è disomogenea. La Commissione ha ritenuto di recepire la proposta del progetto Grosso relativamente alla reintroduzione dell'obbligatorietà della recidiva. La scelta dell'obbligatorietà e della rivalutazione della recidiva è correlata all'eliminazione, nel progetto, delle forme di pericolosità attualmente tipicizzate nell'abitualità e nella professionalità nel reato; queste figure, e anche quella ormai obsoleta del delinquente per tendenza, scompaiono. Le forme di pericolosità che il progetto ha ritenuto di tipicizzare riguardano infatti soltanto i soggetti non imputabili, ma su questo profilo si riferirà in sede propria. Tornando alla recidiva, e avendo già sottolineato il ritorno all'obbligatorietà, si è ritenuto opportuno mantenere la distinzione tra recidiva semplice e recidiva aggravata e, anche in ragione dell'eliminazione dell'abitualità e della professionalità nel reato, si è ritenuta necessaria la previsione di limiti minimi e massimi per gli aumenti relativi alle due espressioni di recidiva. Una delle figure di recidiva aggravata è individuata nell'aver commesso il nuovo reato dopo una condanna per più reati in concorso materiale o in continuazione; su questi istituti si riferirà in sede propria, ma l'anticipazione è qui opportuna, perché serve a individuare un tratto
 

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importante della connotazione normativa della recidiva, come essa è effettuata nel progetto. La rivalutazione complessiva della recidiva non dipende soltanto dalla sua disciplina come elemento circostanziale aggravante; la dichiarazione di recidiva produce infatti una serie di effetti penali che precludono la applicabilità della sospensione condizionale della pena, la fruibilità del perdono giudiziale per gli adulti sempre che non sia intervenuta la riabilitazione, l'affidamento al servizio sociale con prescrizioni come pena di conversione per la reclusione di durata non superiore a tre anni. Nel progetto, l'aumento di pena previsto per la recidiva semplice va da un sesto a un quarto, mentre quello previsto per la recidiva aggravata va da un quarto a un terzo. Soltanto il limite massimo coincide con il massimo della valutazione per le altre circostanze, che è anch'esso un terzo sia in aumento che in diminuzione; il limite minimo, previsto per la recidiva sia semplice che aggravata, non è invece previsto per le circostanze comuni e per quelle speciali. Fa eccezione, e in ciò si allinea con il trattamento della recidiva, la circostanza attenuante attinente all'imputabilità e costituita dalla riduzione considerevole della capacità di intendere e di volere; per essa, infatti, è prevista la riduzione della pena da un quarto alla metà. In tema di criteri di imputazione delle circostanze, la Commissione ha tenuto per valida la vigente disciplina relativamente alle circostanze aggravanti e all'applicazione oggettiva delle circostanze attenuanti rispettivamente a carico o a favore delle persone alle quali si riferiscono. La Commissione ha recepito invece le indicazioni relative alla valutazione della circostanza attenuante erroneamente supposta, sempre che l'errore sulla medesima non sia determinato da colpa e ciò perché ha condiviso le considerazioni positive presenti nei precedenti progetti. Una menzione specifica va fatta per l'attenuante di nuova introduzione consistente nella speciale tenuità del fatto; ciò perché essa, come si riferirà più avanti, è elemento costitutivo di una causa generale di non punibilità, che si configura quando, soddisfatte altre condizioni, sia acquisita la speciale tenuità del fatto e ad essa si aggiunga un livello minimo di colpevolezza. La Commissione ha ritenuto opportuno inserire nel codice, come circostanze aggravanti comuni, le circostanze previste da alcune leggi speciali o da leggi di ratifica di convenzioni internazionali, con le quali l'Italia aveva assunto impegni di tutela penale differenziata o specifica. Il rispetto di tale scelta comporterà, ovviamente, l'abrogazione in parte qua delle leggi speciali o delle leggi di ratifica in questione.
      La scelta di ridurre la valenza delle circostanze rispetto al fatto di reato, ai fini dell'applicazione della pena, spiega la ragion d'essere della disciplina degli aumenti o delle diminuzioni. Essi devono essere operati sempre sulla pena base, senza tener conto dell'aumento o della diminuzione dipendenti da altra circostanza. Ne deriva che, in caso di concorso omogeneo di circostanze, i singoli aumenti o le singole diminuzioni si sommano e tale somma viene aggiunta alla pena base o detratta da essa. Ne deriva altresì che, se il concorso di circostanze è disomogeneo, il giudice deve procedere alla somma degli aumenti e alla somma delle diminuzioni, per poi aggiungere alla pena base, o detrarre da essa, la somma algebrica degli aumenti e delle diminuzioni. Data tale disciplina, non è influente sul calcolo la previsione della precedenza a favore delle attenuanti; infatti, il progetto non la prevede, salvo il caso, sul quale già si è riferito, relativo a un reato per il quale sia prevista la pena dell'ergastolo. In tale caso, infatti, il progetto prevede che devono essere applicate per prime le circostanze attenuanti e ciò comporta che il massimo della pena da infliggere in considerazione del concorso di circostanze aggravanti non può mai essere superiore a ventiquattro anni.
      Ferme le disposizioni del progetto relative al principio di specialità, al reato complesso o al ne bis in idem sostanziale, la disciplina relativa all'applicazione della pena nel caso di pluralità di reati giudicati con unica sentenza è stata notevolmente
 

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semplificata. Tale disciplina, infatti, risulta improntata sull'affermazione, esplicitata in una disposizione ad hoc, della prevalenza della disciplina di maggior favore per il reo, quando più scelte applicative apparirebbero praticabili. Ciò significa che il tetto massimo del quadruplo della pena più grave nel caso di concorso materiale di reati, o del triplo della stessa pena, nel caso di concorso formale o di reato continuato, sono limiti validi sempre che non risultino in concreto sfavorevoli rispetto alla durata complessiva della reclusione determinata dalla somma delle pene inflitte per ciascun reato in concorso o in continuazione. Alla semplificazione complessiva contribuisce anche l'utilizzazione della reclusione come pena unica, nel significato già precisato di unità di misura edittale, opzione questa che consente, in parte qua, di ovviare alle difficoltà attualmente derivanti dalla disomogeneità delle pene in ordine al cumulo giuridico di pene di specie diversa. La Commissione non ha ritenuto di doversi discostare dall'impostazione che attualmente prevede la medesima generica disciplina sanzionatoria per il concorso formale di reati e per il reato continuato. Tuttavia, il progetto ha stabilito un ristretto arco temporale entro il quale è possibile apprezzare l'unitarietà in senso psicologico del disegno criminoso che avvince i reati in continuazione. La Commissione è consapevole del dissenso esistente in ordine alla concezione del reato continuato come figura di qualificazione unitaria o come criterio di unificazione giuridica, ma con l'introduzione del ristretto limite cronologico ha ritenuto di fornire una solida ragione a favore del mantenimento della disciplina vigente, senza che ciò coincida con un'opzione specifica. Se, dunque, vi è ragione di mantenere la disciplina del concorso formale e del reato continuato entro una cornice comune, non vi è però ragione di disconoscere che il reato continuato consta di una pluralità di condotte diverse, ciascuna delle quali è costitutiva di reato, ognuno dei quali è caratterizzato da una propria e diversa colpevolezza. Questo dato, ontologicamente fuori discussione, spiega la diversità di disciplina che se ne è fatta derivare in ordine alla distinzione tra recidiva semplice e recidiva aggravata. Da queste considerazioni deriva anche l'ulteriore scelta di mantenere indifferenziata la previsione della continuazione di reati; il progetto non ha quindi distinto l'ipotesi dell'omogeneità da quella dell'eterogeneità delle violazioni, in quanto esse coinvolgono la valutazione di meccanismi di tipo psicologico, come occasione-tentazione o sfida-risposta, di incerta verificabilità e di difficile accertamento.
      La Commissione ha ritenuto opportuna la conservazione dell'istituto delle condizioni di punibilità.
      La disciplina prevede la qualificazione espressa delle condizioni come tali da parte della legge e ne stabilisce l'estraneità al reato commesso e l'operatività oggettiva. La ragione dell'orientamento favorevole alla previsione dell'istituto sta in considerazioni di extrema ratio: ove sussista una ragione giuridicamente apprezzabile che giustifichi la dissociazione tra reato e pena, essa merita di valere fin tanto che il verificarsi della condizione non ne dimostri oggettivamente l'insostenibilità.
      Nella materia delle cause estintive, del reato e della pena, il progetto presenta cospicue innovazioni.
      La Commissione ha stabilito di eliminare la denominazione di cause di estinzione del reato, oggetto di critiche, a favore della denominazione espressa come cause di non punibilità. La disciplina generale di tali cause, che escludono la punibilità ma non il reato, ne fissa l'operatività oggettiva a favore della persona alla quale si riferiscono, ma ne limita l'effetto, che non si estende alle obbligazioni civili da reato e alla eventuale responsabilità amministrativa o disciplinare. Inoltre, è stata riproposta la disciplina vigente in tema di cause di estinzione del reato, in forza della quale la causa di non punibilità per un reato che sia presupposto o elemento costitutivo di un altro reato non esclude la punibilità di quest'ultimo. Contenutisticamente, le innovazioni attengono all'eliminazione dell'oblazione e all'inserimento della sospensione condizionale
 

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tra le cause di estinzione della pena. L'oblazione è scomparsa come causa estintiva del reato per la doppia ragione che sono state eliminate le contravvenzioni e che la pena pecuniaria non compare più tra le sanzioni penali, salva la competenza penale del giudice di pace. La sospensione condizionale è stata inserita tra le cause di estinzione della pena per la ragione formale che essa ha effetto dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna e per la ragione sostanziale che la condanna a pena sospesa è considerata, per tutti gli altri effetti penali, come una sentenza di condanna; su ciò si riferirà ulteriormente più oltre, in sede propria. L'argomento formale, relativo alla insussistenza del giudicato, vale per tutte le cause comuni di non punibilità che, nominativamente, sono rappresentate dalla morte dell'imputato, dalla amnistia, dalla remissione della querela e dalla prescrizione del reato. La disciplina di questi istituti non presenta variazioni essenziali rispetto a quella vigente. È opportuno, tuttavia, segnalare la specificazione prevista dal progetto per cui l'amnistia per un reato si applica anche al tentativo dello stesso reato e, fermi restando in cinque e in venti anni i limiti minimo e massimo del tempo necessario a prescrivere il reato, la fissazione della regola per cui il reato si prescrive decorso un tempo pari al massimo della reclusione edittalmente inflitta aumentato della metà.
      Anche per le cause di estinzione della pena il progetto ha ribadito la regola della nominatività e della qualificazione espressa. Salvi i casi previsti da speciali disposizioni di legge, sono cause generali di estinzione della pena:

          1) la morte del condannato;

          2) la prescrizione per decorso del tempo della pena non eseguita;

          3) l'amnistia intervenuta dopo la condanna;

          4) l'indulto;

          5) la grazia;

          6) il perdono giudiziale;

          7) la sospensione condizionale della pena;

          8) la non menzione della condanna;

          9) la liberazione condizionale;

          10) la riabilitazione.

      La disciplina della prescrizione della pena prevede l'abbassamento dei limiti minimo e massimo del tempo utile a prescrivere, ridotti rispettivamente da dieci a cinque anni e da trenta a venti anni. La disciplina dell'amnistia intervenuta dopo la condanna ne prevede l'irrinunciabilità. Non sono previste variazioni per l'indulto e per la grazia. Il progetto ha invece introdotto una nuova causa generale di estinzione della pena, costituita dal perdono giudiziale per gli adulti, ferme restando le previsioni speciali nei confronti dei minori di anni diciotto. Il perdono giudiziale è concesso sulla base della sicura esiguità del danno o del pericolo per l'interesse protetto e del minimo grado di colpevolezza manifestato, sempre che l'imputato che lo richiede non sia recidivo o sia riabilitato, sia ragionevole presumere che si asterrà dal commettere ulteriori reati e non vi sia opposizione della persona offesa. Il perdono giudiziale è concesso in alternativa alla condanna. Ne consegue che esso non costituisce precedente ostativo alla concessione della sospensione condizionale della pena, sempre che di questa ricorrano i presupposti. Il perdono giudiziale ha una precisa componente riparativa e conciliativa, culminante nell'assenso della persona offesa; ciò spiega la sua irrevocabilità.
      La sospensione condizionale della pena può essere concessa in ordine a una sentenza di condanna alla pena della reclusione non superiore a due anni, limite elevato ad anni due e mesi sei per il maggiore di anni settanta e ad anni tre per il minore di anni diciotto. La concessione è subordinata a una prognosi favorevole che deve essere fondata sull'occasionalità del fatto e sull'assenza di precedenti condanne, salva l'intervenuta riabilitazione. A differenza del progetto Pagliaro, la sospensione

 

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condizionale della pena non è concepita come una forma di trattamento sanzionatorio. Essa consiste invece, sostanzialmente, nella presa d'atto della apparente non necessarietà dell'inflizione della pena in concreto, presa d'atto che è fondata sulla ragionevolezza di una prognosi di non recidivismo; la presunzione favorevole può essere confermata oppure smentita dalla realtà e la conseguenza sarà, rispettivamente, l'estinzione della pena inflitta in sentenza oppure la revoca della sospensione condizionale. Il periodo di messa alla prova è di cinque anni, come nella disciplina attuale relativa alla condanna per delitto. La previsione espressa dell'inapplicabilità della sospensione condizionale alle pene interdittive, prescrittive e ablative può apparire superflua; essa è stata mantenuta, non diversamente dalla menzione di "unità di misura" relativa alla reclusione, per chiarire il senso dell'innovazione e per fornirne la ragione. Se la gravità del reato è quantificata in una condanna alla reclusione di durata compresa nei limiti di concedibilità della sospensione condizionale e la prognosi è favorevole, la concessione della sospensione neutralizza la reclusione inflitta e, decorso il quinquennio, la estingue. La sospensione condizionale opera dunque direttamente sulla pena della reclusione ma, come sempre, ciò avviene in quanto questa pena è considerata di regola l'unità di misura della gravità del reato. La concessione è, tuttavia, subordinata alla presunzione di non necessarietà della pena; nulla quaestio se il giudice ritiene che qualsiasi pena non sia necessaria, ma diversamente avviene se, ritenuta la non necessarietà di una pena detentiva o restrittiva della libertà personale, ravvisi invece la necessità di altre pene, adeguate alla gravità del reato, ma più orientate verso la prevenzione speciale. In questo caso, la sospensione non è concedibile, ma la flessibilità della risposta punitiva consente di irrogare, per mezzo della conversione della reclusione, una sanzione che è, insieme, meno afflittiva e più corrispondente alla specificità della vicenda giudiziaria. Lo stesso ordine di ragioni supporta la scelta, che è poi un ritorno alla originaria disciplina del codice vigente, in forza della quale la concessione della sospensione non si estende alle pene accessorie. A differenza del perdono giudiziale, la sospensione condizionale può o deve essere revocata; ciò riveste particolare importanza in ordine ai rapporti con l'istituto della conversione perché, nonostante la presunzione di non necessarietà della pena, comunque il giudice dovrà disporre sulla conversione della reclusione in altra pena, con statuizioni da valere al momento della eventuale revoca. Diversamente, come detto, avviene se la pena è ritenuta bensì necessaria, ma non nella forma di pena detentiva o restrittiva della libertà personale; in tali ipotesi, infatti, la conversione della pena della reclusione è effettiva, ma la conversione stessa non interferisce con la sospensione condizionale, per l'applicazione della quale è assente in radice il presupposto costituito dalla non necessarietà della (di qualsiasi) pena. La sospensione condizionale può essere subordinata alle riparazioni o al risarcimento; in tal senso il giudice fissa i termini entro i quali gli obblighi devono essere adempiuti a pena di revoca della sospensione. La commissione di un nuovo reato determina la revoca obbligatoria, mentre essa è facoltativa se nel quinquennio il condannato riporta altra condanna per un reato anteriormente commesso.
      L'istituto della liberazione condizionale non presenta innovazioni di rilievo. Quelle introdotte riguardano la valutazione delle condizioni di salute o familiari del condannato e il ritocco dei limiti cronologici di ammissibilità, quest'ultimo per effetto dell'abbassamento generale dei livelli di pena. Non è stata mantenuta la valutazione differenziata contro i recidivi, ma si tratta di una scelta operata nel quadro dell'opzione rieducativa, che è d'ostacolo a differenziazioni retroverse e che ha guidato analoghe modifiche in tema di prescrizione, di perdono giudiziale e di riabilitazione. Anche quest'ultimo istituto non ha subìto modifiche di rilievo, ma ne è stata accentuata l'importanza, appunto in vista della funzione rieducativa.
 

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      Il progetto ha escluso, come si è detto, il riconoscimento di forme di pericolosità sociale dichiarabili nei confronti di soggetti imputabili e ha optato verso la soluzione ispirata a criteri di prevenzione speciale rivalutando ampiamente l'istituto della recidiva. Il criterio della pericolosità sociale, che nel codice vigente determina l'applicazione di misure di sicurezza, non è stato però del tutto abbandonato perché, se nei confronti dei non imputabili è impensabile una risposta punitiva dell'ordinamento, è altrettanto illogico che la necessità di cure cancelli la necessità di controlli, quando la pericolosità sociale è appunto una manifestazione della causa per la quale non si è imputabili. Il progetto non ha creduto di dover ricorrere a terminologie diverse da quella di pericolosità sociale, perché esse servono soltanto a mascherare la stessa penosa realtà; il progetto ha creduto invece di dover precisare meglio il contenuto della dichiarazione di pericolosità sociale del non imputabile, riducendola corrispondentemente ai soli casi nei quali il controllo, oltre che la cura, è necessario. Ai fini dell'applicazione delle misure di controllo e cura si deve dunque considerare socialmente pericoloso l'incapace di intendere e di volere che abbia commesso un fatto previsto come reato contro la vita o contro l'incolumità, individuale o pubblica, o comunque caratterizzato da violenza contro le persone, sempre che vi siano ragioni per presumere che la sua infermità, qualora persista, lo indurrà a commettere altri fatti della specie indicata. L'esecuzione delle misure è affidata alle strutture giudiziarie soltanto quando il trattamento presso strutture civili non sarebbe altrettanto efficace o sarebbe incompatibile con la necessità di controllo. Il magistrato di sorveglianza verifica, nei termini, la persistente necessità della misura, indica nuovi termini per il riesame e dispone l'eventuale cessazione anticipata.
      Il progetto definisce una serie di misure di sostegno rieducativo per i minori come naturale esito di un sistema che riserva al solo soggetto non imputabile misure diverse dalla pena in senso stretto.
      Il progetto prevede le misure della libertà assistita e dell'affidamento al servizio sociale, con o senza collocamento in comunità.
      Il collocamento in una comunità chiusa è previsto nei soli casi più gravi o nei reati commessi con violenza o minaccia contro la persona.
      La disciplina delle misure di sostegno rieducativo è ispirata all'intento di garantire il pieno e corretto sviluppo della personalità del minore, tenendo conto dell'ambiente di vita del minore e favorendo il coinvolgimento del nucleo familiare.
      Per l'affidamento al servizio sociale nel programma di rieducazione sono previste anche prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e iniziative dirette a promuovere la conciliazione con la persona offesa.
      Relativamente alle obbligazioni civili da reato il progetto si propone di chiarire il nesso tra il reato e il danno che rappresenta il titolo per costituirsi parte civile nel processo penale. Deve trattarsi di un danno diretto e intrinseco al fatto costitutivo, nel senso di un danno riferibile all'offesa tipica del reato contestato. Sotto questo profilo il progetto mira ad evitare il proliferare improprio delle costituzioni di parte civile nel processo penale, anche per agevolarne la concreta efficienza.
      Il progetto prevede la forma di riparazione consistente nella pubblicazione della sentenza di condanna se è necessaria per riparare il danno non patrimoniale da reato.
      Il progetto prevede l'indivisibilità e la solidarietà nelle obbligazioni civili, con espressa estensione della disciplina al responsabile civile, in sintonia con il vigente codice di procedura penale.
      Conformemente all'attuale codice penale, il progetto stabilisce la disciplina delle spese di mantenimento del condannato nonché degli atti a titolo gratuito od oneroso compiuti dal colpevole dopo e prima del reato.
      Una disciplina innovativa, che corrisponde alle linee generali del progetto in ordine alla riparazione, stabilisce che la sentenza di condanna statuisca, ove possibile, anche l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato non riparabili mediante restituzione o risarcimento"».
 

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